A volte le storie e le tradizioni di famiglia, legate ai luoghi, alle case e ai misteri, se nelle mani delle persone giuste, diventano storie più grandi, più preziose: diventano storie di valorizzazione, dove l’antico scopre e incontra nuovi modi di essere nel presente.
Se pensiamo alla scrittura come prima scoperta tecnologica, comprendiamo quanto la tecnologia sia chiave di volta per leggere e interpretare la nostra vita e proiettare le nostre esperienze nel futuro, per le generazioni che verranno.
A me piace ammirare tutto ciò quando penso alle vicende generazionali e storiche che hanno portato all’atto creativo. Oggi voglio parlarvi di come tutto ciò abbia determinato la creazione di un’azienda di fitocosmesi, nata dalla volontà di una donna la volontà, dalla sua determinazione nell’aggiungere la propria firma alla narrazione dei suoi predecessori, al patrimonio di famiglia, arricchendolo di obiettivi nuovi e al tempo stesso fedeli: quelli della cura, del rispetto della tradizione del nostro territorio, della propria impronta di medico accanto e a supporto a secoli di storia che vivono e convivono nel contemporaneo.
La Puglia, si sa, è terra d’ulivi. Gli ulivi, patrimonio indiscutibile. E l’olio è elemento di benessere e salute. Nei territori del mio paese d’origine, chi possiede uliveti ne fa olio: la potatura, la raccolta, il frantoio. Maria Teresa Balducci, medico per professione, ereditando gli uliveti di famiglia, ne ha fatto altro: è così che quell’olio giunge anche in laboratori di fitocosmesi per esprimere il potenziale di elemento di cura per la pelle.
EvO – il Moro dei Testini è una narrazione singolare, plurale, familiare e collettiva; è una realtà emblematica del passato e della capacità innovativa. EvO – il Moro dei Testini è un’azienda di fitocosmesi il cui principale principio attivo è l’olio di oliva, in combinazione con altri principi attivi ed elementi naturali. A partire dal nome, l’azienda della dottoressa Balducci ha molto da rivelarci, avvicinandoci sia per la qualità dei prodotti sia per la genuinità della sua fondatrice e del suo marchio, fino a incuriosirci per le vicende di un Moro che davvero vive in una casa, nel mio paese d’origine, lo stesso della produttrice: Ruvo di Puglia. Ma procediamo per ordine.
Questo giorno, il primo dell’anno, ricco di propositi e predisposizioni d’animo, cosa ha in comune con quelli trascorsi e quelli che verranno? In comune e di particolare.
Ho cercato tra gli oggetti, passandoli in rassegna e riordinandoli nei vari spazi di casa, per un bel po’ di settimane, invano.
Ci ho pensato, allora, tra i caffè e gli aneddoti, tra la spesa e le incombenze, ed ecco spuntare un verbo: un verbo connesso a una categoria precisa di oggetti, da tutti utilizzati in questo periodo di feste e festività.
Il verbo è tintinnare. Chi può negare che sia minimo comune denominatore delle ore recenti e prossime?
Così sono andata a cercarne il significato, dato che, come mio solito, voglio indagare e misurare la nostra stessa lingua, esserne certa senza mai darne per scontata la mia padronanza.
“Mandare suoni argentini, a colpi brevi e staccati. Sinonimi: scampanellare, tinnire, trillare” – riporta così una voce di vocabolario.
Alla voce trillare, sorrido.
– Sì, ma siamo in crisi – dice lui. – Ma che significa? Non è che siccome siete in crisi, tu devi andare a cercare altro altrove. Che senso ha, poi? – dice lei divertita. – Vabbè, dài. È che sono così. – Sì, certo. Tu sei proprio un Peter Pan travestito da manager. Un vero Peter Pan da manuale. – Sì, è vero. Sono un Peter Pan. Vuoi essere la mia Trilly?
E scoppiano a ridere, col NO fragoroso e deciso di lei. La telefonata si chiuderà poco dopo. Una telefonata tra amici, dove lui sa che non la spunta e lei, Eva, la terribile Eva tornata in città per le festività, è irremovibile. I suoi commenti a margine continuano tutt’oggi, divertendoci, perciò non posso fare a meno di sorridere quando col verbo trillare nella mia mente parte l’associazione. Nel sorridere, però, una considerazione si impone. Poiché Trilly è tintinnio e deriva da tintinnare, e poiché la telefonata è avvenuta prima di Natale, tintinnare è davvero il verbo alla moda (statisticamente parlando) di questo periodo. Infatti, anche se non lo usiamo nel nostro linguaggio, di fatto è un verbo che esercitiamo, che decliniamo e coniughiamo con i gesti e le azioni che compiamo. Quanti brindisi avete fatto voi in questi giorni? E quanti ne farete? Quanti tra stanotte e stasera? Quanti bicchieri si sono avvicinati tra sguardi felici, gioiosi? Bicchieri forse non è il termine più indicato: calici è molto meglio, più chic. E cosa c’era nei calici che avete riempito e fatto tintinnare? Com’erano i calici e come risuonavano tra loro?
L’oggetto eletto per questo 1 Gennaio 2025, nonché per questo articolo del progetto editoriale che pian piano vi svelo, è il calice e la mia mente plana tra spumanti, champagne, vini. Quale bicchiere è da eleggere a simbolo di queste mie considerazioni? Quale da nominare ambasciatore di parole e riflessioni?
Chiedo l’aiuto da casa: faccio partire una telefonata al nome dell’esperto, l’importatore di vini della Loira, della Borgogna e di Champagne, capace di spiegarci cosa c’entra l’albeggiare sulle vigne con le bollicine che si sprigionano in bocca, tra il palato e la lingua. La Liguria prontamente risponde.
Il bicchiere cosiddetto flûte nasceva come un’esigenza, molto anni ’70-’80, non particolarmente utile, di vedere bene il perlage. Questo perché c’era il concetto che la qualità fosse legata alle bollicine. di avere uno champagne dal perlage molto fine. In realtà non è così importante, perché a livello organolettico la capacità della nostra bocca di sentire i gusti e la consistenza della bollicina è decisamente molto più importante della vista. La nostra bocca è molto più capace di percepire come si comporta la bollicina più di quanto non sia capace l’occhio. In più, essendo il flûte un bicchiere molto alto e stretto, e versandocene tanto, la parte che rimane libera è troppo piccola e non permette al vino versato, allo champagne, di poter esprimere profumi. Col bicchiere da vino bianco, invece, roteando lo champagne molto lentamente, aumentando la superficie di evaporazione, noi amplifichiamo tutta la parte olfattiva. Quindi è decisamente vincente il calice da Chardonnay. Il flûte non esprime i profumi e serve solo a vedere il gioco di bollicine che si rincorrono. Il calice da Chardonnay amplifica i sentori e i profumi, ce li riporta al naso nel migliore dei modi.
Augurarvi di iniziare l’anno con dei calici consoni per accogliere al meglio tutti i sentori, i profumi, le note olfattive di un vino potrebbe significare, metaforicamente, augurarvi dei giorni capaci di esaltare i vostri stati d’animo più belli, più delicati e per questo preziosi; dei giorni capaci di far percepire agli altri le vostre emozioni, le vostre inclinazioni più autentiche e umane. Augurarvi di saper scegliere il calice più adatto all’esaltazione del vino da assaporare significa augurarvi di essere capaci di affrontare quello che verrà con la stessa determinazione imperterrita della bollicina che, versata, risale su, sempre su, senza sosta, affinché anche il vostro vivere quotidiano sia esaltato nella sua bellezza e nella sua purezza. Augurarvi il calice giusto per il vino migliore significa augurarvi di valorizzare il meglio che la vita vi offrirà, di giocare ogni istante di felicità distratta – o inaspettata – come la migliore carta vincente che casualmente il Caso vi avrà posto in mano, o nella manica. Vi auguro che nei vostri calici ci sia sempre il coraggio di esprimervi e affrontare ogni accadimento a testa alta, che non significa con prepotenza, ma con dignità e amorevolezza, con tenacia e dedizione, per voi stessi. E poiché mi diverte e mi affascina giocare con le parole, vedere come cambia il significato se in un significante si sostituisce anche una sola lettera , per concludere, vi auguro di far tintinnare tra loro calici e sguardi, senza tentennare.
Immagine dal web
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“Sono a pezzi”, sento dire a un tratto. “Sono emozionato. Più
invecchio e più divento sensibile”, aggiunge.
Parole che ascolto furtivamente.
Rifletto sull’accezione di quel modo di dire, “essere a
pezzi”, assegnata da una prospettiva inedita per me. Non mi meraviglia che sia
un uomo a farmela cogliere, ad insegnarmela direi: in questo periodo molte
considerazioni stanno cambiando in me partendo proprio dal mondo maschile.
Essere a pezzi con accezione positiva: perché anche le
emozioni belle ci fanno a pezzi, quando sono legate ai momenti più intensi, ai
dettagli più significativi.
E poi ho riflettuto ancora. La nostra vita, in fondo, è un
insieme di pezzi: pezzi di cuore sparsi per paesi e nazioni diverse; pezzi di
felicità ancorati a immagini e fotografie – e anche le fotografie sono pezzi di
un racconto più ampio. Pezzi di vita sparsi e diffusi, per le camere e per le
case, nella forma di oggetti: libri, dischi, quadri, vestiti che non indossiamo
ma conserviamo, profumi. Soprammobili, anche quelli, anche se ci tocca
spolverarli, o conservarli in scatole come ripostigli o nascondigli. Quanti
oggetti ci riportano a noi e anche lontano da noi, a quelli che siamo stati e
che non siamo più, ma che continuiamo a custodire dentro di noi, in un angolino
come nido, come tana? Una tana da cui vogliamo essere stanati, talvolta.
Il bello delle fotografie è che sono fisse e immobili solo in apparenza. Esse, in realtà, sono un fotogramma perfetto di un racconto capace di farsi e rifarsi, costruirsi e sempre narrarsi a chi era lì presente e per chi possiede occhi capaci di interrogarsi, figli della curiosità e della meraviglia mai ferme. Le fotografie rivelano il tempo che è stato, l’identità di cui eravamo testimoni e portatori, le evoluzioni e le trasformazioni. Un viaggio nel passato mentre già si viaggia, inconsapevoli, verso il futuro: avevate mai pensato che nell’istante in cui stringiamo tra le dita una fotografia in realtà accade ciò?
Partendo dalla mia personalissima filosofia sulla fotografia – e di quest’arte potrei parlare per ore -, nonché dalla mia passione per la fotografia, mi sono accostata a un libro, preferendolo sin da subito per simpatia e affinità a un altro, inserendomi così in un gruppo di lettura dedicato alle Geografie.
Come epigrafe, lettera dopo lettera, parole bianche su schermo nero, la citazione del poeta francese de Lamartine introduce al nuovo film di Luc Besson: DOGMAN.
È
pensiero diffuso che la poesia sia cosa complessa, complicata e difficile: sarà
colpa della polisemia che apertamente dichiara per ciascuna parola scandita. O
delle metafore, delle figure retoriche. Eppure in ogni istante delle nostre
esistenze, ogni singola parola – letta, ascoltata, ritrovata – può condurre in
caduta libera su ricordi, sentimenti, emozioni, sensazioni. Che stiamo guidando,
lavando piatti, spingendo carrelli della spesa, la poesia è lì in agguato, per
ricondurci a noi o lontano da noi, in un presentarsi di più significati legati
e annodati alla nostra storia interiore, privata, a tratti segreta.
II Meteo a Settembre dovrebbe essere una massima generale: “Pioggia all’occorrenza”.
Per tutti gli anni, per ogni estate che finisce.
Già immagino tutti i Meteo a fine telegiornale, le voci, i tubini aderenti e le cravatte strizzate.
L’autunno in qualche modo dovrà pur avanzare nei nostri stati d’animo, che lo vogliamo o no. E allora “Piogge a Settembre, prepararsi per l’evenienza. Raccomandiamo un ombrello sempre pronto in borsa” potrebbe essere il miglior annuncio meteorologico. Un classico, un evergreen, uno di quelli passepartout per il mese che riduce i costumi da bagno sotto mano.
A un anno di distanza dalla mail assurda con sequel da pazzi che ne è nato – vi lascio il link sotto se vi siete persi lo show -, ieri sera Eva è tornata a sorprenderci con una mail di invito. Altro giro, altra corsa, verrebbe da dire, citando il suo motto preferito per un determinato campo e spesso adattato ad altri settori, sempre ludici e ricreativi. Altro giro, altra corsa: altra réunion a distanza.
Questa volta, però, è riservata a una élite altamente selezionata: le “Vandale al sole”. Chi sono? – vi starete chiedendo. Siamo noi, ma ve lo spiego un’altra volta noi chi. Posso solo dirvi che “Vandale al sole” è il nome della nostra chat whatsapp.
La mail è arrivata con un oggetto bizzarro: “Baci diabete a mille”.
Era come se un giorno tutte le cose del mondo si fossero ammutinate.”
Se fosse una canzone: un’aria,
L’Italiana in Algeri, di Rossini
Se fosse un colore: rosso
ESTERNO SETTEMBRE – ATTO PRIMO
– Dov’è che dobbiamo andare?
– Prova di là.
– Ma la barca dov’è?
– Dobbiamo arenarci su una
banchina.
– Speriamo ci diano anche una
panchina, allora; coi tacchi, in piedi non voglio starci.
Dovevamo parlare di un libro strano, di un autore introvabile, invece siamo finiti alla presentazione di un altro titolo e di un altro nome. Il mare sullo sfondo, negli occhi.
INTERNO DICEMBRE – ATTO SECONDO
– Perché non in auto, sotto gli
occhi di tutti? Abbiamo pure le mascherine.
– Guarda lì, accosta, e fregatene
se suonano il clacson. È Bari. Andiamo nel mio ufficio.
Sportelli che sbattono, freddo di
colpo addosso, passi: di lui più lunghi, di lei più frequenti; entrambi, gambe
lunghe e penne abili.
Ironia e poesia, cose
scordate e cose riconosciute in guizzi
di sguardi.
La soglia di un palazzo antico e importante varcata. Gli
sguardi si allungano come fossero d’Acqua. Mi metto in posa per la misurazione
della temperatura (a debita distanza persino dal macchinario, ndr) e poi su: gradini di marmo e rampe a
far girare la testa per la bellezza tutt’intorno, prendi questo corridoio,
supera quell’angolo, svolta a destra, imbocca la porta a sinistra, seguimi, non
ti perdere.
– Poggio la mia roba qui, sullo
sgabello del Papa.
– Hai già avviato la
registrazione?
– Certo. Quando ho detto che
saremmo durati dieci minuti, io e te.
La verità, però, è che se si parla di un libro e di uno scrittore in particolare, “dieci minuti” è un luogo immaginario non fedele alla dimensione temporale.
RACCONTO DI SASSI E DI ALTRE PIETRE
PREZIOSE
C’è un libro come un’opera
teatrale. Overture, Atto I, Intervallo, Atto II – le sue stanze.
Porta, rivela e daccapo cela un
mistero.
Ho cercato lo scrittore, Carlo
Falcoli: nome semplice ma introvabile persino su Internet, persino per me. Alla
fine è venuto fuori un suo amico di liceo, disposto a parlarmi di lui e di
questa strana opera, edita da Adda. Ho avuto risposte come capriole e altre
riflessive, un gioco di specchi, non solo di rimandi; ho cercato di far evitare
voli pindarici (perché sappiamo bene quale fine abbia fatto Pindaro); sinfonia,
fantasie di pioggia e arcobaleni.
Che la comunicazione, a livello
istituzionale, non fosse curata bene, l’avevamo già capito a Maggio, con i dpcm
che parlavano di “congiunti”, questi sconosciuti (e non solo giuridicamente
parlando).
Da qualche settimana, la
sconosciuta perfetta del nostro Governo è la Cultura, questo sostantivo
femminile, singolare ma infinitamente plurale, a cui dò la lettera maiuscola.
Cultura: parola bellissima dal
punto di vista socio-antropologico: definisce un popolo, in diversi momenti
storici e nelle sue tappe evolutive, tanto da farlo divenire il popolo.
Cultura: tre sillabe, portata
esponenziale di significato che tenderebbe ad arricchirsi all’infinito, senza
limiti, integralmente; premessa e risultato nuovo di processi di inculturazione
e acculturazione, con ricadute su piani formali e informali, in un circolo
virtuoso.