Pubblicato per la prima volta su Versante Ripido, “racconto del mese” di Luglio 2018sul tema “la poesia del lavoro che cambia”
Consiglio di lettura: leggete il racconto con questa canzone in sottofondo (è la stessa che accompagna in auto la protagonista) e poi continuate con questa: The Antlers, Putting the dog to sleep
“Questa storia di cieli capovolti” è uno spin-off del romanzo “Piccoli silenzi desiderabili”.
QUESTA STORIA DI CIELI CAPOVOLTI
Mio marito non vuole che io guidi. È premuroso. Preferisce sia lui ad accompagnarmi in ogni dove io debba essere.
Alle volte lo minaccio: prima o poi lo presenterò come mio autista personale a tutti gli uomini facoltosi che mi saranno presentati alla prossima cena di lavoro e relazioni pubbliche. “Così faccio subito piazza pulita e loro, se vogliono, ci possono provare” – aggiungo maliziosa. Ridiamo insieme: niente e nessuno potrà mai minare il nostro legame. Pensando alle nostre risate, sorrido anche ora, mentre guido: episodio ormai raro, praticamente un lusso.
Guidare mi è sempre piaciuto, mi riesce facile anche ora che dirigo l’auto raramente.
Guardo fuori dal parabrezza, lontano dal traffico: il cielo è blu carta di riso. Mi ricorda un regalo scartato velocemente tempo fa, ricevuto inaspettatamente da un mio caro amico: lui guidava, io stacciavo la carta. Era come squarciare un cielo meditativo per una sorpresa di euforia. Supero anche questo ricordo e torno alla realtà, allungo lo sguardo sull’orologio: segna le 20:40. Considero che sto tornando a casa decisamente tardi, la riunione per il prossimo progetto è durata più del previsto. Torno a fissare il cielo: in fondo, dietro qualche nuvola, si scorgono dei lampi. Piano, faccio scivolare l’auto lungo le curve. Guidare è stato il mio primo segno di libertà e rivolta durante una tirannia. Ma questa è una storia vecchia. Ed è, anche, una storia che non racconterò mai, che non presterò mai a nessuna delle donne che inventerò: tempo fa ho promesso a me stessa che avrei scritto solo cose belle e narrato di donne coraggiose, radiose, consapevoli di sé.
Sono una scrittrice.
Ho un ufficio che spalanca lo sguardo sul mare.
È un dono di mio marito, una delle sue tante sorprese inaspettate.
Si trova in un appartamento signorile. L’ha comprato quattro anni fa. Nelle altre stanze ci sono altri studi: di architettura. Sono suoi e dei suoi collaboratori.
Prima era la sede di un grande studio legale e io lo conoscevo già, ma questo mio marito non lo sa: è un segreto che non gli rivelerò mai. La nostra serenità e la nostra felicità appartengono a questo presente. Nel mio passato, mio marito non c’era, né tantomeno c’ero io nel suo: semplicemente, i nostri reciproci passati non riguardano noi. Perché mai, dunque, il nostro presente dovrebbe conoscere il mio passato? Come dice Carofiglio, “il passato è una terra straniera” e forse anche io sono diventata straniera rispetto a quella che ero parecchio tempo fa.
Chissà cosa mi aspetta a casa.
Se sono rare le volte in cui guido, lo sono ancor più quelle in cui faccio così tardi. Di sicuro non posso lamentarmi: puntualmente c’è un piacevole fuoriprogramma.
Alle volte trovo nostri amici e una cena improvvisata tutt’insieme. Non mi dispiace, mi riporta ai tempi della mia prima gioventù adulta: cene in casa di qualcuno, chiacchierate tirate fino a tardi, giovialità, vecchi vinili che girano, candele accese, risate, vino q.b., per qualcuno accompagnato da qualche bicchiere di troppo.
Altre volte, invece, c’è la musica jazz in sottofondo, il tavolo rotondo apparecchiato con cura di dettagli, la cena studiata a puntino che aspetta solo d’essere impiattata. Sono le volte in cui mio marito mi sorprende di spalle, mi cinge i fianchi con le sue braccia, ogni volta come fosse la prima. Io mi volto sorridente, lo abbraccio, ma lui prende la mia mano destra nella sua sinistra e inizia a ballare un lento. Le luci diffuse tra tavolini e angoli avvolgono una complicità che mi sempre sorprenderà, ammaliata e rapita.
Sono le volte in cui Andrea, nostro figlio, sette anni occhi azzurri e risata contagiosa, è dai nonni, o coi cugini più grandi. Mio marito sa sempre gestire tutto, oltre a cucinare da gran gourmet.
Chissà cosa mi aspetta a casa? – me lo richiedo e, al tempo stesso, non mi soffermo a pensare a cosa preferirei trovare rientrando. Tra le auto ferme all’incrocio e l’inversione che mi tocca fare, se il mio tragitto per rientrare a casa è ostacolato, i miei pensieri scorrono fluidi. È una sera troppo bella per inceppare in valutazioni e introspezioni. Nei gesti calmi che accompagnano la quiete della sera, contemplo il cielo carta di riso che ora stempera verso il blu oltremare. Tra poco sarà blu nerastro.
Pioverà?
L’aria sa di nostalgia e ricordi, e io li accolgo tutti con un sorriso sornione.
È giugno, la scuola sta per finire. Gli studenti tra poco abbandoneranno definitivamente i banchi, affollando ancor più la spiaggia sotto il palazzo che ospita i nostri progetti, tra architetture e letterature. Le loro voci entreranno nel mio studio, sorvoleranno le carte, i libri, le immagini e i quadri alle pareti; planeranno sulla mia agenda stracolma di impegni e date da ricordare; atterreranno impertinenti tra i caratteri che starò digitando sulla tastiera del computer. Insieme al garrito delle rondini, al rosso delle ciliegie, alla brezza del mare che si farà tanto desiderare al tramonto, mi ricorderanno di tempi andati. Io stessa, puntuale come ogni anno in questo preciso momento del movimento della Terra attorno al Sole, mi sento la studentessa universitaria che rincasava tardi nell’ultimo periodo all’Università, discussione della laurea di lì a breve. Luglio capitola precipitosamente di fronte al caldo che incombe, Giugno non è fatto per resistere.
In quest’aria di animi sereni e rasserenati, io penso a una storia che mi è stata raccontata tempo fa.
È stata un regalo, io almeno lo vivo così. Non sono ancora riuscita a cristallizzarla per sempre come ho promesso avrei scritto all’uomo che ha deciso di donarmela. Da qualche parte, in una delle tante cartelle del mio desktop, una bozza col suo titolo provvisorio esiste. Ma quando si scrive, quando si è uno scrittore, le cose non sono lineari come negli altri mestieri.
Accade da tanto, e accade anche questa sera, che la mia mente torni a quella storia e a quei protagonisti. Inevitabilmente, un uomo e una donna. Inevitabilmente, una storia d’amore. Di quelle bizzarre e curiose, imprevedibili e improvvise. Fatte di risate, blu cobalto, segreti e pioggia. Pioggia a non finire, e lacrime: come quelle precipitate giù dagli occhi dell’uomo che me l’ha donata, al termine della narrazione. Occhi come cieli intensi. Occhi per viaggiare da fermi. Inevitabilmente, un amore che ha lasciato ogni cosa in sospeso, tranne la Vita di lei che ha conosciuto l’altro volto della Luna, quella mai visibile all’uomo, e oscura. La morte travolge tutto e non ferma nulla.
Mentre allaccio le scarpe da running per la solita corsa, mentre accompagno i bottoni del vestito di seta dall’altra parte dell’asola, mentre ricompongo i capelli dietro l’orecchio, mentre rimetto a posto le stoviglie, mentre chiudo un progetto e ne avvio un altro: in ogni frangente, ultimamente, quella storia mi torna in mente. Mi dico che questo è il momento giusto per farla respirare ancora fissandola nero su bianco. Ma poi rimando. Mio marito mi prende in giro quando gli parlo di tutti i romanzi e racconti lunghi che ho in cantiere, tra la mia mente e appunti, o bozze varie. Mi dice che sono disorganizzata, che dovrei essere più disciplinata. Gli rispondo che i tempi devono essere maturi per tuffarsi completamente in un nuovo mondo da costruire, in una nuova dimensione da esplorare. Gli ringhio bonariamente in faccia che architettare storie non è come schizzare palazzi, ballatoi, scale, cornicioni, architravi. Sì, è vero: anche la scrittura ha bisogno di una sua architrave, di una propria struttura orizzontale che regga il peso della struttura sovrastante un’apertura, e che a sua volta sia sorretta da elementi verticali, se vogliamo usare una metafora. Ma l’architrave della scrittura è diversa da quella di un architetto. Non a caso uno scrittore non potrà mai erigere templi che proteggano uomini. Mi risponde canzonandomi: “Un architetto lo sa: il vuoto è l’infinito da creare. Uno scrittore, idem”. Gli dico: “Tu non capisci”, e lui mi chiede cosa dovrebbe comprendere.
È a questo punto che lascio perdere: non perché non voglia spiegarglielo, ma perché è difficile far comprendere.
Scrivere è un lavoro di poesia: lo stato d’animo, le stagioni, i momenti della giornata, lo stato interiore, il silenzio esteriore che fa respirare e vorticare il mondo che ti abita dentro. Le parole sono solo la sintesi manifesta di tutto ciò. Inventare una storia e vedere cose che non ci sono ma che esistono, seppur in una realtà parallela. È creare universi che si condizionano e che rispecchiano fedelmente le teorie dalla fisica quantistica – romanticismo è solo un altro nome che le diamo. Ed è anche perdersi in questi universi paralleli, tra queste coincidenze che creano il combaciare degli eventi, l’incontro di vite diverse, di sguardi puntuali come appuntamenti col destino. Non è possibile essere ospite di simili dettagli – necessari e imprescindibili – a intervalli irregolari, tra una campagna pubblicitaria di cui curo i testi, gli slogan da coniare, i lavori su commissione da presentare nella data prestabilita. Non è possibile conoscere la verità dei tanti protagonisti senza lasciare slacciate le scarpe da running, sbottonati gli chemisiere, imbrattati i piatti nel lavello, mentre il giorno si trasforma all’imbrunire senza che io me ne preoccupi. Scrivere è vivere la poesia, non è semplicemente un lavoro. Scrivere è la poesia del lavoro che cambia, che ti cambia in qualcuno che non eri prima, con nuovi occhi, nuovi sentimenti, esploratore di lande mai avvistate in precedenza. Ci vuole poesia, poi, per passare da una storia all’altra, per chiudere capitoli, scrivere finali definitivi e versioni complete. Una poesia che sa di silenzio, di armonia dopo gli squilibri della narrazione e i disordini delle giornate dimenticate, trascorse lì su una tastiera, senza chiedersi che ora è, cosa preparo per pranzo, ho un appuntamento cosa indosso, forse dovrei dormire. Scrivere: che mestiere bellissimo. Ricerca, costruzione, meditazione, scoperta, riconsiderazione, fusione, creatività, studio, approfondimento, suggestione, evocazione. È pittura, musica, danza; è recitazione, fotografia, canto. È far volare aquiloni senza vento, far spiccare il volo a una rondine dal palmo delle proprie mani nude; è correre su una spiaggia a piedi scalzi e abiti sbracciati in pieno inverno. Ogni volta che finisci un lavoro, chiudi un viaggio e ogni viaggio è un camminare di sguardi nuovi lungo prospettive diverse.
Cambia il lavoro da scrivere, cambia la poesia da respirare.
Mio marito, tutto questo, non lo sa: architetto, organizza lo spazio principalmente a misura d’uomo, progetta e costruisce immobili e spazi, tra elementi tecnici ed elementi artistici. L’antropologia detta i valori etici propri dell’architettura.
Uno scrittore, invece, cosa crea? Spazi che superano la misura degli uomini, la dimensione del suo tempo, la sua visione oggettiva.
Uno scrittore, invece, a cosa risponde? A tutto e al contrario di tutto. Ogni lavoro inventa la sua etica, risponde ai suoi valori di riferimento. Ogni opera ferisce, ogni opera salva. La parola è un’ala, è un’ancora, un ponte, un missile. Il silenzio non ne è mai l’assenza, semmai crea spazi per altre parole immaginate, pensate, sentite, suggerite in chi leggerà. L’unico che si assenta, mentre scrive, è l’uomo, o la donna; lo scrittore, o il poeta; la voce dei suoi giorni che si perdono in altri tempi.
Scrivere: la poesia del lavoro che cambia e ogni volta non sai come.
Parcheggio l’auto nella strada sotto casa, anche Lana Del Rey finisce di cantare Goodbye kiss alla radio. Esco mentre chiudo la vettura, lancio un’occhiata alle finestre del nostro appartamento.
Forse domani inizio a scriverla davvero, questa storia di cieli capovolti.
QUESTA STORIA DI CIELI CAPOVOLTI, © Luana Lamparelli per concessione a Versante Ripido, 2018, Luglio
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