Il flashmob realizzato a Ruvo di Puglia contro il femminicidio e lo stalking. Denuncia e arte insieme
Youtube, un video, un personaggio già conosciuto nel mondo delle webserie: il protagonista di Bishonnen. Ma non è un nuovo episodio della celebre fiction del regista ruvese Michele Pinto: è un flashmob contro la violenza sulle donne. Una processione di donne per le vie del mio paese d’origine, il protagonista e quaranta donne, tutti col volto coperto da una maschera. Silenzio. Persone presenti casualmente sulla scena che diventano spettatori e attori inconsapevoli, le stradine si snodano per il centro storico fino a giungere alla piazza del Paese. Un urlo. Una frase che prende possesso della scena. Due firme inconfondibili, la commozione e l’emozione a fine visualizzazione. Michele Pinto e Daniela Raffaele, insieme per questo nuovo lavoro di interesse sociale e culturale, oltre che di sensibilizzazione.
Sedute comodamente, le chiedo di raccontarmi del flashmob. Quello che mi impressiona molto –e postivamente- è il fatto che non comincia raccontandomi del progetto, ma parlandomi delle emozioni che cercava, che voleva ottenere per restituirle agli altri.“L’urlo, io volevo sentire l’urlo”, mi dichiara subito. È con queste parole che inizia a raccontare. “Non l’urlo dell’unghia spezzata: quello di frustrazione, ribellione, liberazione.” Nel dirlo, Daniela Raffaele ha una luce particolare negli occhi, propria di chi ha ottenuto quello che voleva ottenere per poter dire davvero “ci sono riuscita” senza che siano altri a confermarlo o riconoscerlo. Nel suo sguardo ha energia, traspare chiaramente la forza dell’animo di chi non si arrende e combatte, felice di farlo e di sfidarsi sempre.
A monte del lavoro finale, non ci sono prove, né il flashmob è stato ripetuto più volte per poter selezionare le scene migliori. Ruvo non è diventata un set cinematografico: è stata la scena e insieme la spettatrice stupita e presa in contropiede di una performance inedita e senza eguali.
Daniela Raffaele ha spiegato alle donne cosa voleva che facessero, come dovesse svolgersi la scena, quale successione di azioni e quale sequenza di immagini avrebbero dovuto esserci e quali fossero i messaggi che tramite esse intendeva veicolare.
“Io stessa sono rimasta molto meravigliata dal risultato finale ottenuto. Non avendo avuto prove, temevo che qualche donna non riuscisse a lasciarsi davvero cadere a terra, che qualcuna rimanesse in piedi, o che il silenzio non potesse essere così intenso come invece l’avevo immaginato io nel momento in cui ho concepito l’idea e il soggetto. E poi l’urlo: anche per quello nessuna prova, non pensavo che potesse essere talmente potente e carico del significato che io gli attribuivo nella mia mente. Un conto è immaginarle, le cose; un altro è farle e vedere che riescono esattamente come le si è immaginate”, continua a raccontarmi l’artista performer.
A dare il proprio contributo alla realizzazione del flashmob, sia sulla scena, sia nella fase di preparazione, gli studenti del liceo linguistico Guido D’Arezzo di Ruvo di Puglia e quaranta donne di età compresa tra i quindici e i quarant’anni, tra cui alcune allieve delle scuole di danza Dancing Queen e Micheal Jackson A.S.D. Il maestro di danza di quest’ultima, Valerio Gattulli, ha poi vestito i panni dello stalker. Lo stesso slogan Giù le mani dalle donne è stato scelto all’unanimità dagli alunni del liceo linguistico Guido D’arezzo: fra tre frasi scritte su una lavagna, nessuna esitazione. A dipingere la scritta, poi, solo alunni, a lavorare lì per le loro compagne.
Un’idea, quindi, quella del flashmob, che ha coinvolto una pluralità di soggetti differenti e ha realizzato un dinamismo di energie e collaborazioni, partendo semplicemente dalla volontà di realizzare una performance mettendosi in gioco totalmente e in una nuova forma, quella di performer appunto, una veste che apparirà nuova e inaspettata per chi l’ha sempre conosciuta come pittrice. Ho chiesto a Daniela Raffaele il perché di questa nuova identità.
“Il dare mi fa stare bene”, mi spiega. “Sono stata letteralmente rapita dalla bellezza della frase Ho un dono e ve lo dono, è un messaggio forte e sublime insieme. C’è molta superficialità, se ci guardiamo intorno, a dispetto dell’immagine sociale che vogliamo dare. Per questo ho deciso di mettere l’arte, la mia arte, a disposizione di tutti per denunciare le brutture che ci circondano. È un percorso che mi fa bene e fa bene. Divenendo una performer, non rinnego affatto quello che sono stata fino ad oggi: nasco come Clitorosso e rimarrò sempre Daniela Raffaele Clitorosso. Però ora voglio utilizzare la mia arte per smuovere canali interiori che ci animano dentro, voglio sviscerare nodi che tutti quanti abbiamo. Ognuno ha bisogno di guardarsi dentro, di conoscersi, di prendere forza dentro di sé e andare oltre fino a liberarsi dei lividi dell’animo, delle frustrazioni accumulate nel tempo, delle sofferenze, per rinascere finalmente a vita nuova.”
Il suo racconto procede spedito, i risvolti di questa decisione si evincono pienamente nel lavoro realizzato. Oltre al suo animo, grazie al suo esporsi, anche altri iniziano a muoversi e smuoversi: è ciò che si deduce quando mi racconta del coinvolgimento emotivo delle donne partecipanti. Molte le hanno dichiarato di essersi immedesimate molto nel ruolo che lei ricopriva, ovvero l’oggetto delle attenzioni e delle violenze dello stalker, immagine rappresentativa dell’uomo che intende controllare e dominare la donna, sottomettendola, abusandone e usandole violenza. Molte di loro, poi, soprattutto le più giovani, le hanno persino confidato di aver vissuto le sue emozioni portate in scena con intensità impressionante. Questo perché loro tutte si sentivano chiamate in causa: direttamente o indirettamente, avevano fatto esperienza di maltrattamenti fisici o psicologici da parte degli uomini sulle donna, perché gli era sfortunatamente capitato, o perché capitato a una loro amica, a una conoscente. Tutto ciò a dimostrazione del fatto che la solidarietà tra donne nasce dal coraggio della condivisione e si manifesta tramite la sintonia, elementi fondamentali che hanno permesso alla performance un risultato ottimo sin dalla prima battuta. La resa scenica di tutto ciò, della denuncia così come della solidarietà femminile e del reciproco sostegno psicologico, è data dalla stretta di mano delle donne, il loro farsi cerchio che si restringe sempre più attorno allo stalker che esercita la propria violenza sulla donna mascherata, Daniela appunto, dopo che lei ha emesso l’urlo struggente eppure necessario perché qualcosa cambiasse.
La stessa maschera che indossano tutte simboleggia l’essere unite e uguali, indistinte di fronte all’orrore che riguarda alcune ma ci vede tutte coinvolte come identità di genere e identità sociale. L’idea nasce da Daniela Clitorosso Raffaele e coinvolge Michele Pinto, regista di Ruvo. È lui a spiegarmi altri aspetti tecnici e altre rese sceniche proprie di questo flash mob. Michele Pinto sottolinea come esso sia cross-mediale per i due stili di comunicazione adottati. “Il primo è dato dall’uso del flashmob come strumento di mobilitazione sociale sempre più utilizzato; il secondo è dato dal fatto che, per la prima volta in assoluto, il protagonista di una webfiction (Bishonnen, ndr) presti il proprio ruolo ad un progetto di denuncia quale il nostro lavoro è.” Un lavoro, dunque, che si pone al pubblico con una valenza plurima, sia per i contenuti, sia per il messaggio forte che si apre a molteplici interpretazioni. Perché questo flashmob non dice semplicemente “ci siamo anche noi, con il nostro contributo, nella lotta contro la violenza sulle donne”: no, è di più, molto di più. Denuncia e sensibilizzazione sociale; responsabilità collettiva di fronte al dramma dei singoli; dichiarazione di presenza e attenzione alle realtà che esistono anche se nascoste o omesse; unità e solidarietà, supporto per chi non sopporta più nel silenzio.
“Le maschere”, spiega Michele Pinto, “hanno qui un uso antropologico, teatrale e metaforico, rappresentano il concetto pirandelliano di Uno, nessuno, centomila. Quelle delle donne sono bianche, candide, a rappresentare l’innocenza rispetto a tanti crimini efferati nei loro confronti; sono tutte uguali perché sottolineano come non vi sia differenza tra le donne, ma solo nelle reazioni degli uomini a certe situazioni. Per il personaggio maschile, invece, ho deciso di ricorrere al protagonista di Bishonnen perché di stalking parla la mia webserie. Ho voluto fortemente che ci fosse un elemento rosso per ogni donna, poi, nello specifico il foulard, in segno di accusa alle restrizioni cui sono sottoposte alcune donne in diversi paesi del mondo.”
La collaborazione artistica tra Daniela Clitorosso Raffaele e Michele Pinto nasce già prima di questo lavoro, con la realizzazione del video Happy. “Il primo realizzato da un piccolo comune, nota bene” sottolineano entrambi, all’unisono. “Tutti gli altri video erano stati girati nelle grandi metropoli” riprendono a raccontarmi, “noi siamo stati gli apripista di quel fenomeno che poi ha investito tutti gli altri paesi. Le riprese son durate una settimana, abbiamo lavorato intensamente e in maniera costruttiva all’interno di una neonata squadra che ha visto protagoniste molte associazioni ruvesi e singoli cittadini.” Una notte insonne per Daniela, il video Happy di Catania in homepage, l’idea, la proposta per realizzarlo a Ruvo di Puglia sbandierata in un post. Il primo a rispondere, Michele Pinto. È fatta. Parte tutto così, come sempre: a caso, ma no per caso.
Subito il video Happy di Ruvo di Puglia diventa un successo mediatico, addirittura internazionale, con molti complimenti che giungono persino dall’America, rendendo omaggio alla bellezza di questo video comparato persino a quello di Amsterdam e che porta il nostro Paese a spopolare sul web per iniziativa e bellezza artistica e architettonica. Il riscontro dall’estero diventa la maggiore gratificazione, perché significa aver fatto un buon lavoro per sé e per tutta Ruvo, che così acquista una notevole visibilità. Ma subito nasce la nuova idea del flash mob. “Perché noi non siamo solo quelli di Happy, noi siamo quelli dell’arte”, butta giù duro Daniela.
E l’arte, si sa, è capace di trasversalità e dinamicità, pluralità di forme e risvolti come solo l’animo umano e la natura possono essere, perché ne è sua manifestazione ed espressione. Non solo: l’arte è anche attribuire significati nuovi a opere già realizzate laddove non ve ne era nemmeno intenzione o consapevolezza. Come nel caso della mia interpretazione delle due figure maschili che srotolano, dal balcone del Palazzo di Città, il telo recante la scritta “Giù le mani dalle donne”. Personalmente vedo in quelle due figure maschili che hanno accettato il ruolo l’emblema del cambiamento. Molto spesso gli uomini, pur condannando gli episodi di violenza sulle donne, non si sono mai espressi o mai esposti per combatterla e per fronteggiare chi la usasse. Questo per restrizioni culturali, ma non solo. In quel gesto voglio vedere il risultato vero dell’emancipazione femminile cominciata come lotta decine di anni fa: ovvero l’essere tutti uguali, indistintamente tutti soggetti sociali da tutelare di fronte al male e agli abusi. Un annientare la diversità uomo/donna per riconoscere il dolore della situazione e tendere la mano a tutela e protezione dell’identità personale quale ogni uomo e ogni donna è. Vedo e voglio vedere tutto ciò, in tutti i contesti del vivere quotidiano.
© Luana Lamparelli
Intervista pubblicata il 17 Aprile 2014 nella rubrica “Ars Artis”.
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