Il primo libro letto in questo 2018 appena iniziato è “La natura esposta” di Erri De Luca.
Il protagonista non ha nome, almeno non per il lettore. È un uomo di montagna, scultore talentuoso (a detta di una donna ora non più nella sua vita) ma riservato, senza pretese né ambizione.
Chi credi di essere, se non sei brillante e magnifico? Siamo i bambini della divinità. Far la parte degli incapaci non rende giustizia al nostro creatore. Non è giusto diminuirsi, per non disturbare gli altri intorno a noi. Siamo fatti per splendere come fanno i bambini. Dobbiamo manifestare con gratitudine i doni ricevuti. Quando tu sei brillante e magnifico, incoraggi gli altri a esserlo anche loro. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 81)
Per vivere ripara piccoli pezzi di statue rotte, lavora pezzi di legno che recupera durante escursioni e soprattutto accompagna oltre confine, passando tra i monti, tutta la gente che vuole andare altrove: gli immigrati, i clandestini. Non è il solo a farlo: altri due suoi amici di paese, il fabbro e il fornaio, hanno il suo stesso doppio lavoro. La sola differenza tra il protagonista e gli altri due è che lui restituisce i soldi quando giunti al momento del distacco, quello a partire dal quale i viaggiatori saranno al di là del confine e lui pronto a tornare indietro. Perché lo fa? Perché reputa che sia giusto così.
Quando la voce si sparge, è costretto a lasciare il villaggio di montagna. Per il suo esilio sceglie in un paese di mare, dove riceve un incarico: restaurare una statua di marmo che rappresenta il Cristo in croce ripristinandola a quel che era la reale intenzione dello scultore artefice. La statua, infatti, era originariamente nuda, ma col Concilio di Trento la Chiesa aveva fatto coprire con drappeggi tutte le parti intime scoperte.
Inizia così il vero viaggio del protagonista. Sempre abituato ad attraversare confini scalando montagne che conosce benissimo, si trova ora a scoprire e indagare le vere intenzioni dello scultore padre dell’opera affidatagli. L’espediente dell’arte, del lavoro artistico, diviene motivo di ricerca interiore, di dialogo con sé e con altre voci diverse da sé. Insieme al lavoro di restauro che procede, la vita di tutti i giorni a cui non possiamo sottrarci: perché ci viene a cercare. Come l’amore, o come la sua assenza.
Sembra quasi che De Luca abbia voluto trasporre nell’immagine dello scultore quella scrittore, creando analogie e parallelismi tra i due mestieri: ci si dedica anima e corpo a una storia non nostra, in qualche modo, da scoprire, osservare, codificare e infine completare col lavoro della scrittura, esattamente come accade allo scultore. La scultura è il risultato di un lavoro di sottrazione, come Michelangelo Buonarroti ben dichiarava; la scrittura è un lavoro di addizione: di parole, immagini da evocare, sentimenti da trasferire, in un certo senso tramandare. Non è un caso, secondo me, se il romanzo di De Luca termina esattamente quando il restauro è finito, quando la parte mancante, il sesso del Cristo (da qui il titolo dell’opera), è nuovamente parte integrante della statua. La scrittura ha scoperto l’ultima parola, che coincide con l’ultima azione dello scultore reastauratore.
Ci sono frasi bellissime, di una poesia disarmante, folgoranti perché scavano dentro di noi, fino alla parte nostra più delicata, più nascosta e segreta (quasi come l’intimità del Cristo), per accarezzarla.
L’universo mescola i suoi frammenti, niente è alieno. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 114)
La fine del’inverno stiracchia di minuti la giornata. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 89)
‘Non sai perdere.’
Non rispondevo, però zitto pensavo il contrario. Lo so fare, so perdere tutto.
Adesso che non c’è, glielo dico nel buio. Avevi ragione, non so perderti. Continuo a strepitare in cuore come un pollo strozzato. Non succede due volte di essere amato con l’intesità di una missione. Non succede a molti di noi neanche una volta. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 39)
Durante il lavoro di restauro per riportare la statua alla sua originaria nudità, sottraendo il drappeggio in marmo aggiunto a posteriori, il protagonista racconta di sé. La creazione di una nuova nudità del Cristo procede di pari passo con un dialogo intimistico, una sorta di viaggio di scoperta. Con il narrarsi del protagonista, si scopre che ha perso un gemello a sei anni, ma entrambi in una certa maniera sono cresciuti insieme pur dopo la morte dell’altro. Perché possiede uno spazio anche per l’altro, chi resta. Uno spazio in cui parla, una voce che gli parla: questo continua a possedere chi ci lascia in chi resta. E poiché tutti noi abbiamo perso qualcuno di cui però ancora sentiamo la voce, come una guida, con tutto l’amore che provava per noi, tutto questo ci avvicina ancor più al protagonista. Proprio così come la statua – con la sua storia e i suoi segreti scalfiti nel marmo – avvicina il protagonista ora al suo primo artefice, ora al Cristo, pur non essendo credente.
È primavera, ho svernato insieme a una statua. Cambiando di mano agli arnesi posso dire di avere scolpito a due mani. Abbiamo finito, le mani e io, la mano di mio fratello e la mia. La sua vita travolta prosegue in me. C’è spazio in ognuno per ospitare gli assenti. (Erri De Luca, La natura esposta, pag.95)
In questo libro c’è l’umiltà, la parte più modesta di tutti coloro che hanno dovuto rinunciare a qualcosa di cui percepiscono l’eco tra il mare e le montagne, tra quegli spazi infiniti e sconfinati come il nostro Io più nostalgico. Così è l’immigrato musulmano esperto di Corano con cui si confronta il protagonista per conoscere meglio alcuni dettagli che, tramite il tatto, coglie sulla statua. Così sono gli immigrati, che tanto spesso svolgono lavori semplici, conducono vite isolate, eppure potrebbero insegnarci tanto, se solo anche noi fossimo umili di fronte all’ascolto, al racconto. Perché spesso provengono da storie molto più ricche del lavoro silenzioso che svolgono nella dignità della semplicità.
Di notte il mare mi metteva nostalgia di terra. (…) Non conosco nessuno senza nostalgia di un’ora e di qualcuno. Sul peschereccio di notte ne avevo così tanta da far diventare voci le onde. E rispondevo in berbero, la mia lingua d’infanzia. (Erri De Luca, La natura esposta, pgg. 96-97)
Non a caso, il protagonista riuscirà a comprendere le intenzioni dell’autore della statua grazie al confronto con tre figure differenti, tre uomini con cui dialoga in momenti distinti: un rabbino, un musulmano e il prete che lo ingaggia per l’impresa. Per dirla con Lévinas, “l‘altro è apertura all’infinito”, e questo infinito nel romanzo di De Luca si avvera autenticamente, quasi un’epifania a cui la pazienza e la dedizione approdano; coincide con la statua che ritrova la sua originalità grazie alla sinergia di più voci capaci di coesistere nonostante le differenze culturali.
C’è l’amicizia vera, insieme all’inganno e alla salvezza, in questo romanzo di De Luca. Ci sono, a parer mio, tutti gli elementi della storia del Cristo, che sono poi gli elementi dell’umanità spogliata di tutte le sue sovrastrutture. Denudata, esposta.
“La Natura Esposta” è per me uno di quei pochi libri che, dopo la lettura, richiedono Silenzio, quel silenzio a me tanto caro dove ogni parola brilla e si fa scintilla per altri pensieri e sentieri dentro di noi; allora restare in silenzio si fa necessario per assaporare l’intera storia fino in fondo, come merita.
Non ho amato questo libro da subito: come le migliori persone, richiede tempo per rivelarsi, per farsi conoscere nella sua unicità, per farsi amare.
Ne ho letto la prima pagina il primo Gennaio, in aereo, sorvolando l’Italia. Non è il primo viaggio che fa: è infatti un caro ricordo del mio viaggio in Sardegna, Isola della Maddalena, durante lo scorso Giugno 2017. Adesso molte sue frasi mi accompagneranno in diversi momenti, come un’eco, avvicinandomi a luoghi solo miei e riconciliandomi col mondo. Perché molto spesso abbiamo bisogno di sapere che non siamo gli unici a osservare le stelle che splendono in cielo di notte con quello sguardo lì.
Vorrei dire grazie a Erri De Luca.
Chissà, forse un giorno glielo dirò.
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