Arthur Golden – Memorie di una geisha

 

Quando ero piccola avevo tre desideri: diventare educatrice per non vedenti (questo per il mistero allora a me inaccessibile del film “Anna dei miracoli”), diventare un’autrice di racconti e romanzi (per le super fiere dei libri a cui mia madre mi conduceva. Ricordo lo sfavillio di una immensa, persa nei ricordi di un Natale della mia infanzia. Ovviamente non sapevo ancora nè leggere, nè scrivere), e diventare samurai (ero pazza di una serie televisiva che si chiamava “I sette samurai”, sognavo di diventare l’unica samurai donna).

Da allora solo il desiderio di diventare samurai non si è realizzato affatto, anche se molto della cultura giapponese è in me, per diversi aspetti.

Poichè questo è lo spazio dedicato ai libri da me letti all’interno del mio blog, dovendo sceglierne uno per cominciare, alla luce della premessa non posso che partire con “Memorie di una geisha”, di Arthur Golden.

“Da bambina credevo che la mia esistenza non sarebbe stata turbata da nulla se il signor Tanaka non mi avesse strappato alla mia casa ubriaca; ora so che il nostro mondo è tanto instabile  quanto un’onda che si innalza in mezzo all’oceano. Quali che siano stati i nostri conflitti e i nostri trionfi, per quanto indelebile sia il segno che questi abbiano potuto lasciare su di noi, finiscono sempre per stemperarsi come una tinta ad acquerello su un foglio di carta.”

Sono queste le ultime parole con cui il romanzo di Arthur Golden si chiude. Un romanzo meraviglioso per la delicatezza della poesia che appartiene a chi guarda il mondo in un certo modo e per la forza che in virtù di ciò gli appartiene. Una forza fatta di pazienza, determinazione, intelligenza per domare le situazioni senza ricorrere mai alla violenza, senza mai lasciarsi sopraffare dallo sconforto, o dalla rabbia.

Il mondo delle geishe è un mondo ormai quasi del tutto inesistente. La nostra cultura occidentale, che così poco conosce dell’incanto nipponico dei secoli passati, ha alterato l’immagine delle geishe così tanto da allontanarla dal significato del termine tradotto nella nostra lingua: “geisha” significa “artista”. Un’artista, dunque, la geisha. Essendo donna, dovendo avere a che fare con uomini, una donna che doveva essere bene accorta, vigile e al tempo stesso femminile e ricca di garbo virtuoso. Doveva saper suonare lo shamisen, saper danzare, saper parlare, tutto questo per dilettare gli uomini, magari mentre loro erano del tutto distratti rispetto a quanto gli accadeva intorno. La vita della geisha era governata da regole ferree e precise, non le apparteneva affatto, in nulla, nemmeno nei guadagni. Le case da thè, gli okiya, gli ohana, gli zori, gli obi, i kimono, i sakè, il rito del mizuage: a tutto ciò ci introduce questo romanzo, con una trama fitta e densa.

Ma cosa di questo libro affascina e letteralmente rapisce il lettore, in un turbinio di colori e immagini che si rivelano precisi sotto i suoi occhi, man mano che legge?  Cosa lo tiene legato al libro? L’ho letto tutto d’un fiato, tra le corse in treno e le notti che si facevano corte per i capitoli intriganti. Ogni volta che lo chiudevo, non potevo non soffermarmi sulla sua copertina.

 

memorie di una geisha 2

 

“Non diventiamo geishe perchè vogliamo che la nostra vita sia felice, ma perchè non abbiamo altra scelta.” (pg. 538)

La storia comincia lontano per approdare a pagine meravigliose dove tutto acquista un senso. Una bambina che diventa donna e ancor prima è già geisha. Un mondo difficile e a tratti crudele. La determinazione, le intemperie della vita, le passioni impossibili da vivere. E la dignità delle protagoniste più intelligenti.

“Con il termine dignità intendo una specie di fiducia in se stessi, di consapevolezza, tale da rendere irrilevanti i piccoli sbuffi di vento o gli schiaffi di un’onda.” (pg. 203)

Quello che più mi colpisce di questo libro è l’intelligenza di alcuni personaggi maschili: vanno oltre la figura della geisha, con le compromissioni che tale mestiere a tratti inevitabilmente comporta, e vedono la donna che c’è oltre l’ovale incipriato alla perfezione, imbiancato per far dimenticare a sè stesse l’io interiore. Tra le labbra tinte di rosso e gli occhi segnati di nero, questi uomini non dimenticano cosa significhi essere uomini, non smettono mai di riconoscere la dignità della donna, serbando loro parole di incoraggiamento.

“Mi aspetto di vederti affrontare l’esistenza a occhi aperti! Se tieni a mente il tuo destino, ogni attimo di vita diventa un’opportunità per avvicinarti a esso.” (pg.415)

La protagonista Sayuri parla di sè partendo da quando non era Sayuri-san, ma Chiyo-chan, e aveva un padre, una madre, una sorella, una casa ubriaca sull’oceano. Il mondo di quella bambina è destinato a scomparire del tutto, e lei stessa diventerà ben altro. Le sorprese sono tante, i colpi di scena non mancano, il romanzo vive e respira senza sosta, lasciando il lettore senza fiato. Riflette su di sè, Sayuri-san, ed è come se tutti noi ci guardassimo come attraverso uno specchio.

“Sappiamo tutti che un panorama invernale, ammantato di gelo, con gli alberi avvolti in scialli di neve, sarà irriconoscibile all’arrivo della primavera; eppure non avevo mai immaginato che una simile trasformazione potesse accadere dentro un essere umano.” (pg. 213)

Non solo: Sayuri parla del dolore e sembra lenire le nostre ferite.

“Il rimpianto è un tipo di dolore molto particolare; di fronte a esso siamo impotenti. È come una finestra che si apra di sua iniziativa: la stanza diventa gelida e noi non possiamo fare altro che rabbrividire. Ma ogni volta si apre sempre un po’ meno, finchè non arriva il giorno in cui ci chiediamo che fine abbia fatto.” (pg. 336)

Conosce bene le debolezze dello spirito umano e i luoghi in cui esso si rifugia per sentirne meno le urla addolorate.

“Non c’è nulla come il lavoro per superare una delusione” (pg. 536)

Al tempo stesso, la protagonista sa quando quel dolore potrà avere voce.

“Non credo che nessuno di noi possa parlare del dolore finchè non ne è fuori” (pg. 551)

Giungere alle ultime pagine di questo libro significa scoprire la dolcezza che la vita sa riservare a chi persevera e procede sul proprio cammino, benchè difficile e spesso pieno di delusioni e amarezze, senza per questo sentirsi sconfitto o arreso. Sono pagine di una bellezza sconvolgente, bellezza che colpisce nell’intimo di chiunque, proprio per quella poesia di cui ho già parlato. Quella che spesso diviene anche la poesia dei ricordi, di fronte ai quali la realtà non ha il valore maggiore che dovrebbe avere.

“A volte credo che le cose che ricordo siano più reali di quelle che vedo.” (pg. 562)

Ho terminato di leggere questo romanzo in una domenica di sole, in spiaggia, ignorando telefonate, amici che mi attendevano da tutt’altra parte e amici giunti in spiaggia per trascorrere insieme del tempo. Perchè? Perchè questo libro permette di riconciliarsi con la parte di sè che più soffre e più ricorda. Se pensiamo a quante maschere indossiamo noi per tirar dritto nella vita di ogni giorno; se pensiamo all’arte di parlare con gli altri mistificando il nostro dolore e le nostre sofferenze per non rigare il trucco e far stare sempre a proprio agio l’interlocutore di turno, che siamo noi commercialisti, o scrittori, o insegnanti, o genitori, o amanti; se pensiamo a tutto ciò, non può assolutamente sfuggirci che in questo libro ci siamo noi, e che quelle labbra chiuse, raffigurate in copertina, che pare vogliano raccontare il più dolce segreto già svelato, siano in realtà le nostre. Ho chiuso questo libro e ho immortalato il momento con questa foto. Poi sono rimasta in silenzio per qualche giorno, rileggendone a tratti le ultime pagine. Spero possa travolgere piacevolmente anche voi. Il mio migliore augurio.

memorie di una geisha

 

Foto e testi: Luana Lamparelli

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Luana Lamparelli
Luana Lamparelli, pugliese, autrice e scrittrice, collabora con artisti, scrive racconti romanzi e poesie, cura rubriche.

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