Di calici e brindisi

Questo giorno, il primo dell’anno, ricco di propositi e predisposizioni d’animo, cosa ha in comune con quelli trascorsi e quelli che verranno? In comune e di particolare.

Ho cercato tra gli oggetti, passandoli in rassegna e riordinandoli nei vari spazi di casa, per un bel po’ di settimane, invano.

Ci ho pensato, allora, tra i caffè e gli aneddoti, tra la spesa e le incombenze, ed ecco spuntare un verbo: un verbo connesso a una categoria precisa di oggetti, da tutti utilizzati in questo periodo di feste e festività.

Il verbo è tintinnare. Chi può negare che sia minimo comune denominatore delle ore recenti e prossime?

Così sono andata a cercarne il significato, dato che, come mio solito, voglio indagare e misurare la nostra stessa lingua, esserne certa senza mai darne per scontata la mia padronanza.

“Mandare suoni argentini,  a colpi brevi e staccati. Sinonimi: scampanellare, tinnire, trillare” – riporta così una voce di vocabolario.

Alla voce trillare, sorrido.

– Sì, ma siamo in crisi –  dice lui.
– Ma che significa? Non è che siccome siete in crisi, tu devi andare a cercare altro altrove. Che senso ha, poi? – dice lei divertita.
– Vabbè, dài. È che sono così.
– Sì, certo. Tu sei proprio un Peter Pan travestito da manager. Un vero Peter Pan da manuale.
– Sì, è vero. Sono un Peter Pan. Vuoi essere la mia Trilly?

E scoppiano a ridere, col NO fragoroso e deciso di lei. La telefonata si chiuderà poco dopo. Una telefonata tra amici, dove lui sa che non la spunta e lei, Eva, la terribile Eva tornata in città per le festività, è irremovibile. I suoi commenti a margine continuano tutt’oggi, divertendoci, perciò non posso fare a meno di sorridere quando col verbo trillare nella mia mente parte l’associazione. Nel sorridere, però, una considerazione si impone. Poiché Trilly è tintinnio e deriva da tintinnare, e poiché la telefonata è avvenuta prima di Natale, tintinnare è davvero il verbo alla moda (statisticamente parlando) di questo periodo. Infatti, anche se non lo usiamo nel nostro linguaggio, di fatto è un verbo che esercitiamo, che decliniamo e coniughiamo con i gesti e le azioni che compiamo. Quanti brindisi avete fatto voi in questi giorni? E quanti ne farete? Quanti tra stanotte e stasera? Quanti bicchieri si sono avvicinati tra sguardi felici, gioiosi? Bicchieri forse non è il termine più indicato: calici è molto meglio, più chic. E cosa c’era nei calici che avete riempito e fatto tintinnare? Com’erano i calici e come risuonavano tra loro?

L’oggetto eletto per questo 1 Gennaio 2025, nonché per questo articolo del progetto editoriale che pian piano vi svelo, è il calice e la mia mente plana tra spumanti, champagne, vini. Quale bicchiere è da eleggere a simbolo di queste mie considerazioni? Quale da nominare ambasciatore di parole e riflessioni?

Chiedo l’aiuto da casa: faccio partire una telefonata al nome dell’esperto, l’importatore di vini della Loira, della Borgogna e di Champagne, capace di spiegarci cosa c’entra l’albeggiare sulle vigne con le bollicine che si sprigionano in bocca, tra il palato e la lingua. La Liguria prontamente risponde.

Il bicchiere cosiddetto flûte nasceva come un’esigenza, molto anni ’70-’80, non particolarmente utile,  di vedere bene il perlage. Questo perché c’era il concetto che la qualità fosse legata alle bollicine. di avere uno champagne dal perlage molto fine.  In realtà non è così importante, perché a livello organolettico la capacità della nostra bocca di sentire i gusti e la consistenza della bollicina è decisamente molto più importante della vista. La nostra bocca è molto più capace di percepire come si comporta la bollicina più di quanto non sia capace l’occhio. In più, essendo il flûte un bicchiere molto alto e stretto, e versandocene tanto, la parte che rimane libera è troppo piccola e non permette al vino versato, allo champagne, di poter esprimere profumi. Col bicchiere da vino bianco, invece, roteando lo champagne molto lentamente, aumentando la superficie di evaporazione, noi amplifichiamo tutta la parte olfattiva. Quindi è decisamente vincente il calice da Chardonnay. Il flûte non esprime i profumi e serve solo a vedere il gioco di bollicine che si rincorrono. Il calice da Chardonnay amplifica i sentori e i profumi, ce li riporta al naso nel migliore dei modi.


Augurarvi di iniziare l’anno con dei calici consoni per accogliere al meglio tutti i sentori, i profumi, le note olfattive di un vino  potrebbe significare, metaforicamente, augurarvi dei giorni capaci di esaltare i vostri stati d’animo più belli, più delicati e per questo preziosi; dei giorni capaci di far percepire agli altri le vostre emozioni, le vostre inclinazioni più autentiche e umane.  Augurarvi di saper scegliere il calice più adatto all’esaltazione del vino da assaporare significa augurarvi di essere capaci di affrontare quello che verrà con la stessa determinazione imperterrita della bollicina che, versata, risale su, sempre su, senza sosta, affinché anche il vostro vivere quotidiano sia esaltato nella sua bellezza e nella sua purezza. Augurarvi il calice giusto per il vino migliore significa augurarvi di valorizzare il meglio che la vita vi offrirà, di giocare ogni istante di felicità distratta – o inaspettata – come la migliore carta vincente che casualmente il Caso vi avrà posto in mano, o nella manica. Vi auguro che nei vostri calici ci sia sempre il coraggio di esprimervi e affrontare ogni accadimento a testa alta, che non significa con prepotenza, ma con dignità e amorevolezza, con tenacia e dedizione, per voi stessi. E poiché mi diverte e mi affascina giocare con le parole, vedere come cambia il significato se in un significante si sostituisce anche una sola lettera , per concludere, vi auguro di far tintinnare tra loro calici e sguardi, senza tentennare.


Immagine dal web
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Luana Lamparelli
Luana Lamparelli, pugliese, autrice e scrittrice, collabora con artisti, scrive racconti romanzi e poesie, cura rubriche.

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