Tra dipinti e protagonisti in stop-motion, la passione per le passioni
Ho incontrato Domenico Velletri, per conoscere meglio come nasce la sua arte, per dialogare con l’uomo che l’artista è, al di là delle sue opere e delle sue trovate geniali.
Ancora una volta ho l’occasione di cogliere le sfumature dei suoi dipinti ammirandoli dal vivo, nel suo studio personale a Bisceglie, il suo paese d’origine, dove tuttora vive.
I tuoi quadri sono molto evocativi, dai tratti sempre carichi di pathos. Il loro messaggio ha un impatto forte e immediato con chi li osserva. Comunicano la passione o il sentire che ne ha determinato la creazione, si percepisce chiaramente l’immediatezza del fluire del tratto pittorico, guidato da un sentimento intimo e profondo. La tua arte è scevra dalle logiche che solitamente muovono e guidano le produzioni del panorama pittorico e artistico in generale. Personalmente colgo ciò, osservando i tuoi quadri. Puntando lo sguardo altrove, trovo Cecilio, un progetto completamente diverso, ormai entrato nelle case di tutti con la capillarità che solo la piattaforma web Youtube e internet oggi possono offrire.
Se non lo sapessi, penserei che la mano creatrice delle tele sia estranea a quella da cui Cecilio trae origine. Come coniughiamo queste tue espressioni artistiche?
Cecilio e i miei quadri sono fortemente e unicamente legati dalla passione per l’espressione artistica. I dipinti nascono da un contrasto, sia che siano a colori, sia che siano in bianco e nero. Nascono da emozioni vissute e fortemente sentite, che siano positive o negative, come bene hai colto, oltre che per l’esigenza di tirar fuori quello che mi attraversa e per comunicarlo, condividerlo con chiunque si affacci a contemplare le mie opere. Per questo sono dipinte di getto; a volte, in sole due ore di lavoro, l’opera è già realizzata e ultimata. I toni non sono mai sfumati, piuttosto troviamo contrasti marcati, particolari. L’esigenza che mi guida è quella di immortalare un momento preciso. Da sempre è così.
Cecilio, invece, nasce nel 2013, dalla passione per l’animazione e il creare insieme. Il semplice divertimento di vedere animarsi tanti fogli sfogliati velocemente sotto le dita ha fatto sì che la lampadina si accendesse e che qualcosa nascesse: Cecilio, appunto.
Per i tuoi dipinti, il tempo di lavoro è celere: hai dichiarato che possono essere utili anche solo due ore. Un episodio di Cecilio dura generalmente poco meno di quattro minuti. Il tempo di lavoro che c’è dietro un singolo episodio, però, qual è?
Per realizzare un singolo episodio occorrono circa cinque o sei giorni, per otto o nove ore di lavoro al giorno. Ogni secondo di filmato è realizzato attraverso venticinque scatti fotografici. Un lavoro molto impegnativo e molto concentrato, con livelli di attenzione elevatissimi, dettagli sempre sotto controllo. Ogni aspetto è curato da me: dai quadri di scena, miniature di opere mie e degli artisti in cui Cecilio si trasforma inconsapevolmente, all’ambientazione della scenografia, ai costumi che cucio a mano io stesso. Non lavoro da solo: con me c’è Angela Morgigno, laureata in Scienze dei beni culturali, organizzatrice di eventi culturali. (Angela Morgigno è anche la sua compagna, ndr)
Come interpreti la temporaneità dell’installazione e la fissità dell’opera d’arte dipinta?
Non amo particolarmente le installazioni: sono più per l’approccio intimistico dell’arte, preferisco entrare nelle case del pubblico in silenzio, quasi in punta di piedi.
Esiste una corrispondenza unica e imprescindibile tra l’immagine che si compone nella tua mente, che prefiguri visualizzandola attraverso la tua immaginazione, o è tutto in divenire?
Quando vivo emozioni e sensazioni forti e impetuose, inevitabile che mi ponga di fronte alla tela. Non c’è un’immagine precisa nella mia mente, non ci sono tratti precisi già delineati, in quel momento. C’è solo il desiderio di esternare pittoricamente quel che provo. La sorpresa delle forme e dei colori che infine la tela accoglie investe me prima di qualunque altro osservatore. Vivo così il mio creare, le mie opere nascono e rivelano a me la propria identità sotto le mie dita, sotto i miei occhi.
Il valore etico dell’arte del dipingere, intesa nel senso più stretto e concreto dell’intingere il pennello nel colore, impastarlo dopo averlo disposto sulla tavolozza, il dar forma e colore all’immagine e vederla lì sulla tela. Qualcosa che con la tecnologia quasi si è dimenticato, o perso. Molti pittori, oggi, in realtà, non disegnano: la loro arte è fatta di fotografie poi rielaborate attraverso software che consentono di “dipingere” l’immagine. Cosa mi dici a riguardo?
Non rinnego la tecnologia, che apprezzo per la possibilità di realizzazione di alcuni progetti (vedi Cecilio e la tecnica stop-motion, ad esempio).
Tuttavia ritengo che un artista del mio settore, ovvero un pittore e/o uno scultore, non possa prescindere dalla conoscenza dei materiali e dei loro usi.
L’autorevolezza del gesto del dipingere e di quei rituali di preparazione e predisposizione possiamo toccarla con mano ancora oggi?
Assolutamente. Io la colgo e ne trovo dimostrazione nei miei laboratori con i bambini. I loro stessi genitori desiderano che avvenga il reale contatto con l’arte non mediato da tecnologia alcuna. Sto constatando una riscoperta del valore etico dell’arte talmente forte che i bambini non vogliono più andar via a fine lezione, non vogliono più smettere di creare con le tempere, di sperimentare le tecniche con gli strumenti e i materiali messi loro a disposizione. Se ci soffermiamo a pensare a ciò e allarghiamo il discorso, è inevitabile non pensare alla necessità e all’urgenza del recupero della tradizione anche nel gioco, nella componente ludica della nostra vita.
La continuità nel creare, inteso come percorso produttivo che accompagna la crescita dell’artista. Se ti soffermi oggi nell’osservare le primissime tue opere e subito dopo passi alle ultime realizzate, come ti riconosci in esse e tramite esse?
Inevitabile notare il cambiamento, certo. Le prime opere sono diverse dalle ultime, ma le riconosco sempre, non rinnego nulla. Ci sono sempre io, lì nelle prime, benché vi ritrovi immagini e colori differenti. Non rinnego nulla, anzi: la diversità tra la mia arte raffigurativa iniziale e l’attuale evidenzia il miglioramento, la crescita dell’artista. Lo stile è cambiato, a rivelarlo è la tecnica, ora più approfondita che in passato. Questa divergenza non può che rendermi soddisfatto, soprattutto perché il mio creare non è mai stato mosso dalla necessità di compiacere il pubblico, di avere un riscontro forte e massivo a livello commerciale. Ho sempre creato per il piacere dell’atto artistico in sè.
Spesso, agli artisti che incontro, muovo provocazioni. Per vedere come reagiscono, cosa mi rispondono a freddo, su due piedi, o anche solo per vedere l’effetto che fa. Una provocazione anche per te: l’artista inteso come sismografo della società. Cosa mi dici?
(Sorride, ndr.) L’artista come sismografo della società, dici? Questa mi piace, non ci avevo mai pensato. Tu cosa mi dici, visto che è una tua considerazione?
Dico che inevitabilmente è così. L’arte ci rappresenta, siamo tutti in crisi, alcuni opachi, altri in ricerca e in discussione, di sé, di altro da sé, su più fronti. Di questa crisi l’arte è testimone e testimonial, se vogliamo. Ma torniamo a te. Adesso, visto che siamo un po’ usciti dal rigore che l’atto del creare evoca, ti concedo e ti rivolgo delle domande più conversevoli. Te le pongo sotto forma di enunciati matematici, assiomi quasi. La prima: il punto di partenza, se non anche la meta, o una meta.
Il punto di partenza è me stesso, quello che sento, come voglio viverlo e rappresentarlo. Sempre. La meta… Non voglio vedere la meta: voglio andare avanti, procedere sempre e crescere.
Per “vedere l’effetto che fa”, come sopra. Adesso la seconda: un film, un libro, un cantante.
(Perché questa domanda?, mi chiede. Pretende la risposta, gli dico che è un mio cult, ma non è per tutti: la riservo solo a chi parla meno, o- potremmo dire- a chi non ama molto parlare, come lui. Avendo risposto che sì, parla poco ed è alquanto introverso quando io ho chiesto conferma della mia constatazione a riguardo, all’inizio della nostra chiacchierata, non può certo sottrarsi, o pensare che io lo preservi da tale “privilegio”. Divertito –e rassicurato soprattutto, perché alle volte la sua riservatezza mi è sembrata volesse affermare “state attenti a quel che dite: tutto potrebbe essere usato contro di voi”- procede nel rispondermi.)
Per i film: tutti quelli di Troisi, per la sua poesia ironica, la similarità con i miei quadri. Un suo film su tutti? “Ricomincio da tre”, decisamente.
Per le canzoni: quelle rock, i primi Litfiba soprattutto, per i suoni e i testi, a tratti incomprensibili.
I libri: quelli di Moravia. Amavo leggerlo perché mi faceva viaggiare, e poi c’era il suo forte erotismo. Mi piacciono molto i fumetti, ne leggo sempre.
Adesso l’ultima, poi smetto di torturarti, giuro! Il colore, la luce, il bianco, per Domenico Velletri.
Il bianco per me rappresenta la luce, ma anche la drammaticità. Preferisco usare il bianco per conferire questo aspetto ai miei quadri, piuttosto che il nero. Il bianco è assenza di colore: è lì, in quell’assenza, che esiste la drammaticità, per me.
La luce è fondamentale perché tutto e tutti i colori abbiano significato, compreso il nero. I colpi di luce e i contrasti di colore sono sempre al centro delle mie opere, per esprime al meglio il massimo.
E ora scoprite voi l’arte di Velletri, incontrate voi Cecilio, tra il suo sito internet, Youtube e le numerose pagine web che parlano di loro, passando per il suo studio.
© Luana Lamparelli 2014
Articolo pubblicato il 13 Giugno 2014 nella rubrica “Ars Artis”. Seguila in anteprima esclusiva sui portali barilive.it, tranilive.it, coratolive.it, ruvolive.it, terlizzilive.it, giovinazzolive.it, bitontolive.it