Di versi, mari inquieti e biciclette

INTERVISTA A PAOLO POLVANI

Con questo mese di Settembre parte anche il nuovo ciclo di interviste a personalità del mondo della cultura e dell’arte in generale. Uso il termine “nuovo” perché voglio recuperare la rubrica Ars Artis che ho ideato e curato anni addietro. Edita su diverse pagine della Livenetwork.it (una su tutte, barilive.it), ha avuto un bel seguito di lettori che tutt’oggi, quando mi conoscono casualmente, mi dicono sorpresi “Ma io leggevo la tua rubrica! Mi piaceva tanto”. È stata un’esperienza che ha portato altre cose belle, quindi ecco che ricomincio.

Ars Artis si proponeva di far conoscere al pubblico iniziative nuove e protagonisti. Scrittori, fotografi, attori, manager, musicisti si raccontavano ai lettori con la propria voce, accorciando le distanze tra chi produce arte e chi può ammirarla o fruirne. Il mio vero obiettivo è sempre stato quello di far capire che, in realtà, non esiste alcuna distanza: si produce musica, o letteratura, o cinematografia, e al tempo stesso si lavano piatti, si innaffiano piante, si compra cibo; al tempo stesso si hanno preoccupazioni, ricordi, speranze, risate. A fare la differenza, nel bene o nel male, è l’unicità della persona, la sua scintilla di brio, e anche questo appartiene a tutti, a prescindere dal mestiere che si svolge o non svolge.

Ogni mese, a partire da oggi, una voce si racconterà per scoprire la persona al di là della sua passione e del suo mestiere – che sia scrittore, fotografo, pittore, musicista, o altro. Attraverso i protagonisti delle interviste, poi, si potrà conoscere molto di più, scoprire altre voci, altri autori, alimentare la nostra curiosità di ricerca e scoperta.

Continue reading →

21 GIORNI PER CAMBIARE

Editoriale di Settembre 2019

Studi scientifici affermano che al cervello occorra un tempo minimo di ventuno giorni per smantellare un’abitudine e installarne un’altra più favorevole al nostro benessere.

Ventuno giorni per cambiare abitudini, quindi pensieri, e permetterci di stare meglio.


Pronunciare una ferita quando è appena ricucita non è semplice. Arginare la tensione, contenere un’emozione è più nobile. Ecco l’ombra di qualcosa che poi cambia. Scavare o tralasciare il senso, voltarsi e non guardare dentro. Ammettere o tacere, avvicinarsi e rimanere.

Cristina Donà, Conosci
Continue reading →

Marco Grassi, L’incidente sui binari della comunicazione – Il caso Ferrotramviaria

DIALOGO CON L’AUTORE

Era il 12 Luglio 2016 quando la nostra comunità subiva un grave incidente, un lutto indelebile. Due treni della Ferrotramviaria, ET 1016 ed ET 1021, al chilometro 51, nelle campagne tra Corato e Andria, entravano in collisione fra loro. La curva su cui verificava l’impatto aveva impedito che i due macchinisti potessero avvistarsi, rallentare la velocità di marcia, evitare l’impatto e la tragedia. Nell’incidente perdevano la vita ventitré persone: i due macchinisti, il capotreno del ET 1016, un Dirigente di Movimento fuori servizio e diciannove passeggeri. I giornali avrebbero riportato che le condizioni metereologiche, quel giorno alle 11:05, fossero buone. Intorno, cicale e ulivi a inghiottire il dramma.

Da quel momento, la nostra identità comunitaria e storica è stata ferita indelebilmente, la tragedia ci ha colpiti e scossi tutti. Alla Ferrotramviaria, infatti, da Barletta a Bari siamo tutti legati per vissuti personali che su quelle rotaie hanno avuto il loro corso. Tra lezioni universitarie, esami, lavoro, motivi diversi, semplici uscite nei paesi collegati dalla rete ferroviaria, quei treni significavano potersi muovere su una linea non prevista da altri mezzi di trasporto pubblico e in tutta sicurezza. Se molte generazioni hanno conseguito una laurea presso l’Università degli Studi di Bari, è grazie alla Bari Nord, come semplicemente la chiamiamo noi. Dopo quel giorno, però, la memoria storica non è stata più la stessa.

Continue reading →

Ciao, Uomo di Tiresia

Da questo post, l’articolo giornalistico ANDREA CAMILLERI, Ciao Uomo di Tiresia, a cura di Luana Lamparelli, per il Progresso Magazine


Lo scrittore Andrea Camilleri.

Arriva forte come un proiettile e rimbalza da parte a parte la notizia: Andrea Camilleri ci ha lasciati.

Ci ha lasciati l’uomo, ci ha lasciati lo scrittore.

La sua vita ha tanto da insegnarci: la tenacia e il coraggio soprattutto, insieme al non arrendersi, anzi: arrabbiarsi e mescolare quella rabbia alla propria passione. Forse nasce così la determinazione, quella che segna l’obiettivo e manda tutti al diavolo.

Chissà come si sono sentiti i dieci editori che hanno scartato il suo primo romanzo, Il corso delle cose, quando hanno visto letteralmente volare Camilleri sulle loro teste, anni dopo e lavori acclamati dal pubblico su ogni fronte. “È il corso delle cose” direbbe forse oggi con la sua ironia, anche in merito alla sua scomparsa, lui che era felice di vivere e non temeva la morte.

Il suo primo romanzo nasceva per una promessa fatta a suo padre: quella di scrivere la storia che Andrea aveva inventato per lui accudendolo in ospedale prima che morisse. Fu proprio suo padre a dirgli di scriverla così come l’aveva raccontata a lui, con quelle espressioni dialettali che colorivano e intensificavano la narrazione, la rendevano più vera, più verista. Come Pirandello, anche Camilleri è sempre stato abile nel passare dal verismo del suo tempo all’umorismo, e viceversa. Una storia, quella narrata nel primo romanzo, nata parallelamente alla vita reale. La vita di uno scrittore è così: procede in parallelo su due, tre o più binari, portandolo in diverse dimensioni, e non sempre quella sua privata e personale viaggia sugli stessi stati d’animo narrati. I personaggi hanno una vita propria, a un certo punto, e tu – volente o nolente – devi seguirli, assecondarli, stargli dietro. Non puoi fare altrimenti. Così come lo stesso Camilleri racconta ne I racconti di Nenè:

Fin quando un personaggio non è in grado di alzarsi dalla pagina e cominciare a camminarmi per la stanza, quel personaggio, secondo me, ancora non è risolto”.

da Andrea Camilleri, I racconti di Nenè, raccolti da Francesco Anzalone e Giorgio Santelli, Feltrinelli
Continue reading →

Strade, tragitti

Luana Lamparelli – reading Notte bianca della Poesia

28 Giugno, ore 14:45.

Un messaggio giunge sul mio cellulare.

A distanza di qualche giorno dall’evento a cui ero presente come ospite, ricevo inaspettatamente una foto. La ricevo da un numero amico: ad averla scattata è il mio ex vicino di casa, architetto. Salutandoci, quella sera, mentre andava via, non mi aveva detto di aver scattato delle foto: la sorpresa è mista all’incredulità.

Mi sono chiesta in quale momento fosse stata scattata, di quali parole fosse stato fermato l’istante, di quale poesia stessi cercando di trasmettere il non detto e il non scritto al pubblico che lì ascoltava.

Qualche ora prima avevo ripercorso il tragitto che mi riportava a casa quando “casa” era un paese non mio. Con il cuore leggero e consapevole del tempo trascorso, delle cose cambiate, dei fallimenti e delle svolte, avevo ricalcato i percorsi che solo fino a quattro anni fa mi erano più familiari, fino a ritrovarmela davanti: la casa che ho abitato e riempito di cene, pomeriggi con le finestre aperte e il jazz e Beethoven che suonavano, notti insonni trascorse stirando, albe aspettate e vissute scrivendo perchè bisognava consegnare i lavori ma il tempo era poco, l’ispirazione sempre in ritardo, il caldo delle giornate estenuante. Qualche ora prima avevo contemplato, dopo tanto e con dolcezza, il gelsomino piantato sette anni fa in un vaso per strada, per adornare quell’angolo del centro storico che io e i miei vicini avevamo fatto nostro a nostro modo. Il gelsomino ha resistito alla mia partenza: i suoi rami si sono intensificati, hanno scavalcato la tettoia del portoncino, il primo balconcino, raggiungendo il più alto puntano dritti verso il cielo, coi fiori profumati e i sogni racchiusi nel verde delle foglie. Ho sorriso seguendone il tragitto intricato eppure naturale – e naturale sembra essere il sinonimo di imprevedibile, alle volte.

Quella è stata la casa in cui i miei libri hanno trovato sistemazione su nuovi scaffali, dove mi sono divertita a inventare gli spazi, dove sono state parcheggiate le prime pedalate in bici dopo tanto tempo. Quella è stata la casa in cui è nato Piccoli silenzi desiderabili, dove ho pianto scoprendo il finale del racconto L’ufficio in riva la mare, scritto mentre le stoviglie aspettavano nel lavandino e il pranzo si freddava nel piatto. Non sempre la scrittura segue le nostre traiettorie: alcune storie hanno una vita propria, le conosci man mano che diventano nero su bianco sotto i tuoi occhi, sotto le tue dita che pigiano i tasti. Certe storie ti prendono per mano e ti fanno scoprire quello che tu non avevi immaginato, anche se porteranno il tuo nome.

Quella è stata la casa dove ho sorriso divertita per i dialoghi di Eva, la pazza che rivela al lettore chi siano tutti i personaggi che si muovono tra le pagine di PSD. È tra quelle stanze che il terzo romanzo ha preso forma ma mai consistenza finale, e ancora oggi aspetta. In quella casa, in qualche modo, c’è stato mio padre: tra tutti i suoi vinili accatastati e quello di Buona domenica incorniciato, come a ricordarmi i pomeriggi che trascorrevamo nella mia infanzia io e lui sul divano, accanto al giradischi, ascoltando e cantando “Sotto il segno dei pesci”, lontano dagli acidi della camera oscura, quella del suo studio fotografico dove io non potevo entrare, mi era proibito, ma puntualmente mi intrufolavo. Da quanto non ho una buona domenica con mio padre?

Da quanto conosco il potere delle parole che non sempre sortiscono l’amore?

Le fotografie raccontano storie custodite in frammenti. Dietro l’obiettivo della macchina fotografica, l’occhio strizzato per meglio mettere a fuoco sembra fare l’occhiolino al caso che si dispiega lì davanti, mentre l’inquadratura si scompone e ognuno torna al proprio posto, alla propria risata, alla propria solitudine.

Quante cose insegna l’arte della fotografia?

Quante cose ho imparato senza volerlo?

Quanti anni sono passati da quando, nel lettone dei miei, ponevo le mani come mio padre mi aveva insegnato e studiavo inquadrature di geometrie astratte lanciate sul soffitto? Avevo quattro anni, avrei imparato molto dopo che non tutto quadra nel mondo degli adulti. È lì che si nasconde la poesia della vita.

Alle volte, in quella casa di quel paese non mio, tornavo dopo aver percorso un fitto intreccio di stradine e viuzze fatte per lasciarmi dietro qualcosa di me stessa che non volevo portare più con me. Inevitabilmente qualcosa restava addosso, come un profumo difficile da scordare, come l’ambra liquida e l’ebano che ancora hanno saputo tornare nei sogni degli anni a venire.

Guardo la foto arrivata sul mio cellulare senza parole nè preavviso e mi interrogo. Cosa dicevo, di cosa parlavo mentre ne sfioravo il ricordo tra le dita sospese, nell’attimo in cui l’otturatore si è chiuso e ogni cosa è stata immortalata e taciuta in quest’immagine?

A me piace pensare che quello sia l’istante in cui, anticipando i versi di una precisa poesia che avrei letto di lì a poco, stessi dicendo ai presenti che ogni città che viviamo – è irrilevante per quanto tempo – e poi abbandoniamo – qualsiasi sia il motivo – non è solo una città, non è solo quello che abbiamo vissuto: per scoprire cos’altro sia, dobbiamo ripercorrerla ancora.

E una volta sola non è sufficiente, una volta sola non sarà mai tutte le volte.

Luana Lamparelli

Ruvo, 10 Luglio 2019

© COPYRIGHT 2015-2016-2017-2018-2019 | TUTTI I DIRITTI RISERVATI | VIETATA LA RIPRODUZIONE PARZIALE O TOTALE | LUANALAMPARELLI.IT

PLAYLIST DI UN POMERIGGIO ESTIVO:

Una somma di piccole cose, Niccolò Fabi

Se io fossi il giudice, Afterhours


IL SENSO DEI LEGAMI – Viaggi, cicatrici e sorrisi

Questa mattina, aspettando che la caffettiera borbottasse, puntualmente  ho aperto quel diabolico social ruba-tempo. Si è subito imposta la notizia della caramella al limone di Trenitalia. Una per ogni donna che viaggiasse in Executive o che usufruisse del servizio di ristorazione a bordo dei treni, per omaggiarla nella giornata (anche) a lei dedicata. Fino a esaurimento scorte, però. Quasi esaurivo le risate! È stato allora che ho capito il vero motivo del messaggio della mia collega, di qualche giorno prima: “Ce la farai a scrivere un nuovo articolo per la tua rubrica su Caro Diario Social?”. Venerdì, 8 Marzo, Giornata (non Festa) della Donna. Venerdì, 8 Marzo,  giornata di pubblicazione per la mia rubrica Parole a coda lunga.

Così eccoci qui.

Prima di tutto ho pensato “le donne: croce e delizia”, per tutte le fasi della vita che viviamo, per tutto quello che ogni giorno affrontiamo e per quello che siamo chiamate sempre a scegliere. Lavoratrici, mogli, mamme, fidanzate, educatrici, tate, casalinghe e professioniste, cestiste, calciatrici, imprenditrici, lettrici e scrittrici, sull’orlo di una crisi di nervi e dall’altra parte della bufera. “Ogni scelta è una rinuncia e io non voglio scegliere mai più”, canta Dente, ma noi donne non ci arrendiamo e questa affermazione, secondo la coniugazione dell’Universo femminile, la decliniamo piuttosto così: ogni scelta la facciamo, ci rimbocchiamo le maniche e ci riusciamo. Questo è il mio motto ed è anche il fil rouge che mi connette alle donne più importanti della mia vita. L’ho realizzato esattamente una settimana fa: nel clou di un periodo intenso tra studio, lavoro, scadenze imminenti, strategie da individuare e necessariamente vincenti, una mia amica mi ha costretta a fare una lista di almeno cinquanta persone che hanno migliorato la mia vita, o che mi hanno aiutata – consapevolmente o inconsapevolmente – a migliorarla.

Stilando la lista, mi sono resa conto che di uomini ce n’erano pochi, anzi pochissimi. Mi sono tornate in mente le donne che mi hanno accompagnata per periodi della mia vita conclusisi con una svolta, un cambiamento tutto mio, che mi ha portata al livello successivo del videogioco. Inevitabilmente ho inserito l’amica di liceo, T. , che vive a Parigi e che sento tra mail e vocali whatsapp, ridendo e ricordandoci che a breve ci rivedremo, con tutto quello che abbiamo pianificato di fare insieme, tra teatri, viaggi e discorsi etico-politici. Di strada ne abbiamo fatta, da quei banchi di liceo. È stata poi la volta dell’amica dell’adolescenza, Titti, che adesso riesco a sentire solo alla sera, in lunghe conversazioni, quando non riusciamo a pranzare insieme, con cui progettiamo cose da adulte, adesso. Indiscutibilmente, mi si è stampato il sorriso sulle labbra quando ho pensato a Rosa, la donna che con le sue forze è riuscita a portare qui al Sud una bellissima realtà per ragazzi e adulti disabili e che oggi è una counselor eccezionale. Ho pensato alla mia amica Ada, alla sua dedizione per il suo lavoro, i suoi bambini e la sua vita; ho ricordato anche le sue minacce per non avere tempo da dedicare a noi. “Questo è l’ultimo weekend che ti concedo per studiare. Dopo non hai più scuse”, mi ha detto domenica mattina di fronte al mio ennesimo “Non posso raggiungerti”. Son ritornata con la mente a tantissimi anni addietro e a Francesca, che mi ha regalato sorrisi in un periodo in cui ero triste, tristissima, e anche a Maria Pia: il mio tornare a essere tenace e determinata nasceva grazie a loro. Entrambe mi hanno insegnato a guardare sempre avanti. Mi è scesa una lacrima serena quando ho pensato a Emma, la mia più cara amica delle elementari e che ora non c’è più. Emma non ha mai camminato, aveva anche un ritardo cognitivo, ma era simpatica, aveva il sorriso stampato sul volto e alle volte piangeva perché qualcosa le faceva male. I miei sogni, in quegli anni, la vedevano invece miracolosamente camminare: era il mio desiderio più grande di allora. È con lei che ho scoperto mi piacesse prendermi cura degli altri, essere un’educatrice attenta seppur concentrata sulla mia vita. Ho pensato a tutte le donne forti  e attente che ho conosciuto tramite il mio lavoro e che hanno fatto qualcosa per me gratuitamente, dimostrandomi fiducia incondizionata: è questa la solidarietà femminile di cui abbiamo bisogno.

Non manca il nome di Emanuela, che come me ama gli animali e la discrezione,  né quello di Manuela, con cui condivido sempre la capacità di investire su di sé e pianificare, senza lasciare da parte fard e rossetto.

Non potrà mai venir meno, nella lista, il nome “Teresa”: anche se mi manca incredibilmente, la mia zia giovane come una sorella maggiore in molti modi mi è sempre accanto. Le parole di chi ci ha amati, quando amorevoli, sanno guidarci sempre, sempre rispondere alle nostre domande.

E ancora molte mi son tornate davanti, sorridendomi.

In questo ricordare nomi, volti, momenti, in questo ritrovare in fondo me stessa, ho pensato al senso dei legami. Noi tutte, io e loro, indifferentemente, siamo legate: pur essendo indipendenti, ci apparteniamo.  Il nostro essere distinte e disgiunte confluisce inevitabilmente in una storia che, da diverse prospettive e angolazioni, diverse per ognuna, appartiene a tutte noi e ci lega.

Con quel semplice esercizio, stilare una lista, mi sono guardata un attimo indietro in questo periodo in cui sono concentrata nel presente per il mio futuro. “Il passato è un rifugio sicuro. Il passato è una costante tentazione. E tuttavia il futuro è l’unico posto dove possiamo andare”, ho pensato allora. È tratta da un meraviglioso romanzo di Marcela Serrano, Dieci donne.

Nel libro, dieci donne si incontrano e narrano di sé per volontà dell’unica assente, la loro psicoterapeuta. Quello è il suo modo di dir loro addio: costretta ad affrontare un viaggio che le impedirà di continuare a seguirle, consapevole del fatto che in realtà siano “guarite”, decide di riunirle affinché si conoscano, nella speranza che possano far rete fra loro e supportarsi vicendevolmente, ognuna con la propria unicità e coi propri bagagli personali, tutte diverse. È una storia che parla dei legami col proprio passato, con quello che sono state, con chi le ha accompagnate nel percorso di cambiamento e crescita. È un romanzo che parla ad ognuna delle mie amiche, se vogliamo, e a me, a voi. Perché sono certa che, soffermandovi a stilare una lista di persone che hanno cambiato la vostra vita, sicuramente contereste donne consapevoli di sé, ognuna con un proprio talento diverso dal vostro. Come lo definisce la Serrano, “il talento è un titolo di responsabilità”. Penso, sempre più con maggiore convinzione, che chi è davvero responsabile è capace di crescere in maniera autentica e aiutare gli altri nel proprio percorso di crescita, e che questo richieda un talento eccezionale. Mio nonno materno ripeteva sempre a noi nipoti: “Dovete andare con quelli migliori di voi se volete diventare grandi”. È per questo che credo sia sano tagliare i rapporti con chi mostra la sua incapacità di gestire le proprie emozioni, di dialogare, di confrontarsi con sincerità e lealtà, di continuare a costruire nonostante le diversità e le fragilità: non può permetterci di migliorare, non è uno specchio sano in cui rifletterci, non è un esempio. Non credo questa possa essere definita superiorità: è semplicemente desiderio di progredire sempre più, è desiderio continuo di migliorarsi. Alle volte le persone sono piene di rancori, ostilità, insicurezze che trasformano in cattiveria. Sono così accecate dalla rabbia per i propri errori, per la propria superficialità, per la propria inadeguatezza rispetto agli altri che, piuttosto che lavorare su di sé, aggrediscono gli altri, puntano il dito contro, seminano tempesta. Personalmente reputo le relazioni interpersonali “viaggi”; come tali, anche esse si esauriscono. “Arrivo in un posto per andarmene, non per restarci. (…) Viaggio con curiosità.”, afferma una protagonista della Serrano. Dal canto suo, Anne Carson ci insegna che “L’unica regola del viaggio è: non tornare come sei partito. Torna diverso”.

Credo, fortemente credo nel potere delle relazioni autentiche e non frivole o di convenienza. Credo nella forza delle donne che prima di tutto sanno conoscersi, ascoltarsi e solo dopo un’attenta analisi parlare con le altre. Credo nella rete che crea valore, solidarietà, sostegno, reciprocità. Non ho spazio né tempo per i rancori, per il pettegolezzo, per la stupidità, così come per lo shopping. Ho voglia solo di viaggiare. Il viaggio vero? Per me è guardarsi dentro, alleggerire il carico, eliminare il superfluo. Avere un cuore più umano, più materno forse, anche con sé stesse. Portarsi per mano, diventare consapevoli di sé. Perché, ne sono convinta, le donne consapevoli di sé e della propria storia sono donne salve. Spero possiamo salvarci tutte, appartenendoci e mantenendo la nostra indipendenza al tempo stesso.

Per questo 8 Marzo non voglio scomodare il femminismo, né i movimenti più recenti del #metoo e #timesup. Non voglio scomodare nomi importanti di donne passate alla storia, di eroine o fate turchine. Per questa Giornata della Donna ho voluto raccontarvi un po’ di me, di diverse persone che non conoscerete mai, molto probabilmente, perché possiate raccontare e raccontarvi di voi. Sono certa che nella vostra vita voi abbiate certamente qualche cicatrice che vi riconduca a una donna preziosa, grazie alla quale potete oggi sorriderne compiaciute nonostante una leggera vena di amarezza. Parlo delle cicatrici da cui siete rinate più forti di prima, quelle che potete esporre come medaglie. Perché, come Luoise Madeira, anche io “Adoro l’ambivalenza poetica di una cicatrice. Ha due messaggi: qui, mi sono fatta male; qui, sono guarita”.

Questo io dedico a voi, oggi 8 Marzo, oggi come tutti i giorni.

Luana

articolo pubblicato per la prima volta sul blog Caro Diario Social, 8 Marzo 2019

Leggi anche la mia recensione a Dieci donne di Marcela Serrano.

©LUANA LAMPARELLI, copyright 2019 | TUTTI I DIRITTI RISERVATI | LUANALAMPARELLI.IT

Contatti: circolamparelli@gmail.com

Storie del buongiorno per genitori coraggiosi

La copertina italiana del libro

Lucio Dalla cantava: “…ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”.

Una mia amica sosteneva: “Visti da vicino, sotto una lente d’ingrandimento, nessuno è normale”.

La psicologia insegna che il concetto di normalità non esiste in assoluto: ogni società ha elaborato la propria definizione. Diverse concezioni di “normalità”, dunque, una per ogni cultura, ognuna con un’ampia sfera di comportamenti accettati e condivisi dalla società a cui quella cultura appartiene. Sostanzialmente questo significa che quanto, secondo una cultura di riferimento, è giusto fare e quindi insegnare ai propri figli, per molte altre potrebbe non esserlo. Quello che è “normale” per gli eschimesi in termini di ospitalità, per esempio,  non è moralmente condivisibile né eticamente accettabile agli occhi di noi occidentali, quindi per noi sarebbe anormale.

Chi dei due ha ragione, dunque, tra la mia amica e Lucio Dalla?

Per rispondere, vorrei scomodare una parola che è andata tanto di moda qualche anno fa: “ribelle”. Usato al plurale femminile, abbinato a un sostantivo tanto a cuore per mamme e papà, ha segnato un’incursione editoriale che ha attratto molti genitori. L’opera a cui mi riferisco è “Storie della buona notte per bambine ribelli”, approdata in Italia nel 2017. “Cento vite di donne straordinarie” è il sottotitolo riportato in copertina. E figuriamoci se non attecchisse in terra nazionale, con tutte le mamme e i papà che vogliono figlie eccezionali!

Cosa significa “ribelle”? Erano davvero tremende e incorreggibili queste donne da bambine? Erano ingestibili, a prova di signorina Rottermeier, pestifere?

E poi per quale ragione aprire un filone letterario con questo titolo, “Storie della buona notte per bambine ribelli”? Dopo il modello della principessa, vogliamo forse inculcare alle nostre figlie che, se non si è ribelli da piccole, da grandi non si sarà donne degne di nota?

Con occhio da educatrice – e non me ne voglia nessuno – ho personalmente bocciato  questo titolo (sottolineo: il titolo, non l’opera, non il suo contenuto). Un titolo da trovata commerciale, diciamocelo. Perché il libro racconta di donne passate alla storia per il proprio talento, per il proprio impegno sociale, per la propria tenacia. Frida Kahlo, Rita Levi Montalcini, Margherita Hack e molte altre sono le donne ritratte da illustratrici e autrici che ne narrano le gesta. Donne senza dubbio intelligenti, forti, determinate, con una grande motivazione e un’irrefrenabile forza di volontà. Ma, appunto, donne. Quando bambine, nessuno sapeva cosa sarebbero diventate da grandi:  se guerriere, pioniere o casalinghe. Nessuno, nemmeno i genitori. I genitori: a mio parere, noi tutti dovremmo guardare a questi ultimi come i veri autori del successo delle proprie figlie. Perché, volenti o nolenti, hanno saputo trasmettere a queste piccole donne, inconsapevoli del proprio destino, il dono più bello che si possa fare: il coraggio di essere se stesse. L’insegnamento più grande, col più alto grado di virtù, che un genitore possa tramandare a suo figlio (bambino o bambina, naturale, adottato o in vitro che sia) è la capacità di essere sé stessi, di conoscersi, di scoprirsi e di percorrere la propria strada, tracciando il proprio cammino, inventandolo e realizzandolo passo dopo passo.

Genitori ribelli sono, per me, uomini e donne capaci di sostenere le differenze delle proprie figlie, di incoraggiarne l’unicità, di guardare ai loro tratti caratteriali distintivi come punti di forza da valorizzare. Sono stati, per me, uomini e donne capaci di non far temere ai propri figli limiti e difetti, quanto piuttosto di renderli capaci di guardarli in faccia per affrontarli o accettarli.

E comunque “ribelle” non rende ancora bene. Lo sostituirei con rivoluzionari. Rivoluzionari sono i genitori così. Per me sono rivoluzionari tutti quei genitori che amano e sorreggono i propri pargoli per quello che realmente sono e non per quello che vorrebbero che fossero, perché è solo così che gli permetteranno di crescere sereni, di affrontare le sfide di tutti i giorni con un sentire invincibile nonostante tutto, al di là delle rese umane e momentanee. Diventeranno astronaute, dottoresse, scrittrici, casalinghe, maestre le loro figlie? Saranno contadini, ingegneri, professori, collaboratori scolastici i propri figli? Non ho le risposte sulle professioni: so solo che saranno uomini e donne coraggiosi, consapevoli, capaci di aiutare a loro volta gli altri nel trovare la propria strada. So solo che saranno donne capaci di parlare per esprimere le proprie idee e uomini capaci di sostenerle. Insieme potranno creare contesti migliori nelle nostre società.

Qualcuno potrà obiettare che, magari, non tutti i genitori delle grandi donne di cui il nostro libro di riferimento racconta sono stati così, ed effettivamente noi non sappiamo se fossero attenti o assenti nella loro vita, se fossero presenti qualitativamente o quantitativamente; io in primis non voglio nemmeno star lì a indagare e ricercare possibili risposte.

Perché quello che conta, secondo me, a ben pensarci, è essere capaci di accendere una scintilla, in questi bambini; anche solo attraverso un pertugio, mostrargli un infinito di stelle e fargli capire, come dice Margherita Hack, che siamo figli delle stelle. Possiamo brillare anche noi, se desiderio, coraggio e consapevolezza ci animano.

A questo libro vorrei affiancarne un altro, che però è fuori collana: “Natural born loser”, di Oliver Phommavanh. Nel titolo di copertina c’è un’altra parola, graficamente barrata, subito dopo born: questa parola, cancellata come fosse un errore, è “leader”. Il libro? Racconta di come non è facile o immediato diventare leader, e quindi vincenti: bisogna tirar fuori il meglio di sé per scoprire, meravigliosamente, che sotto quella scorza iniziale si indossa già la tuta dell’eroe. Come fossimo tutti Superman senza mai aver allentato prima la cravatta. In fondo, diventare leader significa prima di tutto saper fare squadra, saper supportare gli altri, e chi può riuscirci meglio se non tutti quelli che hanno perso mille volte rialzandosi sempre, ogni volta con più consapevolezza e determinazione?

Per quanto riguarda la ribellione, piuttosto che usarla come etichetta per bambini e bambine, vorrei lasciarla per gli schemi, i prototipi, gli stereotipi; vorrei fosse usata contro i bavagli alla voce critica ma costruttiva e per tutto ciò contro cui è giusto andare, ma sempre con dignità, rispetto, intelligenza. A tal proposito, vorrei aggiungere che rivoluzionari in modo viscerale sono tutti i genitori che amano incondizionatamente i loro bambini disabili, che non smettono mai di riporre fiducia in loro pur essendo realistici. Quei genitori che hanno capito che la sfida più grande da affrontare e vincere ogni giorno è migliorare la qualità della loro vita.  Sono genitori che hanno vinto una sfida difficilissima: cancellare il genitore e il bambino che hanno desiderato e cullato per chissà quanto tempo e reinventarsi con tutto l’amore, l’energia, il coraggio e la rabbia che questo processo richiede. Se penso alle parole di Voltaire, “La più coraggiosa decisione che puoi prendere ogni giorno è di essere di buon umore”, penso a questi genitori, e la loro immagine mi fa sorridere più fiduciosa.

“…ma l’impresa eccezionale, dammi retta / è essere normale”, “nessuno è normale se visto da vicino, sotto una lente d’ingrandimento.”

Chi ha ragione dunque, Lucio Dalla o la mia amica?

Entrambi, ognuno per le giuste motivazioni.

Luana Lamparelli

articolo pubblicato per la prima volta sul blog Caro Diario Social, 8 Febbraio 2019

©LUANA LAMPARELLI, copyright 2019 – 2020| TUTTI I DIRITTI RISERVATI | LUANA LAMPARELLI.IT

Contatti: circolamparelli@gmail.com

Tempo di (P)revisione

Ormai parecchio tempo fa, ho letto un libro: era il 2006 e mi è sempre rimasto impresso. Sicuramente per i contenuti, le considerazioni e le informazioni, ma soprattutto per il titolo scelto da chi l’ha scritto: il famoso Premio Nobel per la Medicina del 1986. Che è donna: Rita Levi-Montalcini. Il libro, invece, è Tempo di Revisione, giunto tra le mani dei lettori dopo Tempo di mutamenti (2002) e Tempo d’azione (2004).  Parlare di tempo, in questo preciso periodo, è emblematico: siamo all’inizio del nuovo anno,  da poco si è chiuso il 2018, inevitabilmente abbiamo fatto – chi più, chi meno – un bilancio di chiusura, e provato a focalizzare obiettivi nuovi per questo 2019. Ho sempre trovato assurdo come un confine tracciato da noi stessi, in maniera del tutto astratta, in quella dimensione che chiamiamo tempo, possa determinare una diversa predisposizione del nostro spirito di fronte all’ignoto: il futuro. Che sembra ampio, ampio almeno per i prossimi dodici mesi, fino al prossimo trentuno dicembre. A tal proposito, nel 2010, scrivevo “Non c’è un inizio, non c’è una fine. C’è un istante, un attimo, in cui varchiamo la soglia di una porta che noi uomini abbiamo immaginato. Che continuamente creiamo”. Ovviamente quella porta è il Capodanno, l’attimo esatto in cui entrambe le lancette sono sull’attenti sul loro fulcro, a segnare la mezza notte, facendoci ritrovare dall’altra parte di quella soglia astrale. In un nuovo inizio.

“Ogni inizio contiene una magia/ che ci protegge e a vivere ci aiuta”, scrive Hermann Hesse nella sua poesia Gradini.

Se penso al tempo, inevitabilmente mi torna in mente il caro ingegnere prestato alla Filosofia: De Crescenzo. “Il tempo è un’emozione”, asserisce in un suo celebre film. Che, guarda caso, s’intitola 32 Dicembre: un giorno che non esiste sui calendari, ma che potremmo tranquillamente aggiungere – se solo volessimo.

Se il tempo fosse davvero solo sostanza di emozioni, allora il tempo sarebbe inevitabilmente composto di parole, piuttosto che ticchettii e lancette. Parole per indicare tutte le emozioni che ci hanno regalato i nostri sogni, ma anche  le nostre illusioni; le vittorie, le sfide, i traguardi, e pure  le rese. Parole che sono nomi propri di persone, o aggettivi per definire le esperienze. Se fosse così, il tempo vivrebbe non su quadranti, ma in scatole: scatole diverse per ciascuno di noi e gelosamente custodite nella memoria di ciascuno di noi. E allora sì che il tempo di ognuno di noi sarebbe diverso dal tempo di tutti gli altri. E se così fosse, allora anche il tempo diverrebbe emblema e paradigma dell’unicità e irripetibilità di ciascuno di noi. Avremmo ognuno una o più parole con cui chiamare un anno, anziché la serie di numeri. Chissà, forse è per questo che ogni anno, ogni primo Gennaio, stiliamo una lista di buoni propositi (e qui mi torna in mente il mio professore di matematica e fisica del liceo che puntualmente ci ripeteva: “Di buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno”).

Quali buoni propositi possiamo proporci per questo nuovo anno? Vorrei suggerire una parola pacifica, che non segni una frattura con tutto quello che c’è stato prima, che invece getti un punto e ci faccia far pace (anche più in là negli anni) coi nostri errori, che ci faccia “ricalcolare il percorso”, che ci dia coraggio per riprogrammare e per superare, per imparare ad andare “oltre” i nostri stessi limiti e che allo stesso modo ci faccia sentire meno in colpa se ci fermiamo un attimo. È semplice, e molto probabilmente ora che la leggerete penserete: “Ma che banale!”. Ebbene, questa parola è “amarsi”.

Amarsi: forma riflessiva del verbo amare, ma anche “forma” reciproca. Amarsi che vuol dire curarsi, accompagnarsi, prendersi per mano, sedersi a tavolino per capire meglio cosa fare per il proprio bene. Amarsi, voce di un verbo che ognuno di noi può coniugare in un modo tutto proprio. Cosa vuol dire amarsi?  Vi siete mai soffermati a chiedervi “Come manifesto a me stesso il mio amore? In che modo sono capace di amarmi?”. E sicuramente il nostro modo di amarci oggi non è lo stesso di ieri: perché cambia così come cambiamo noi, in base alle nostre stagioni, ai nostri tempi. E torniamo alla cara parola tempo.

Rita Levi-Montalcini, in ordine cronologico, ha scritto Un universo inquieto (2001), Tempo di mutamenti (2002), Tempo d’azione (2004) e Tempo di revisione (2006). Se pensassimo a quell’universo inquieto come a noi stessi, ciascuno potrebbe ora seguire il proprio percorso di vita attraverso i tre titoli dell’autrice Premio Nobel, scoprendo com’è cambiato nelle scelte, nelle azioni, nei modi di relazionarsi con gli altri, riflettendo su come ha agito nei diversi contesti, nelle diverse situazioni, con le stesse persone o con persone diverse, rivedendo infine tutto, come facendosi un tagliando (e non necessariamente passando per un day hospital o per un chirurgo estetico). E se aggiungessimo una P davanti a “revisione”? Allora forse, oltre a chi siamo oggi, potremmo scoprire chi saremo domani, o chi vogliamo diventare. Magari, in che modo vorremo amarci di più. Che sembra una cosa banale, e invece molti non sanno nemmeno cosa significhi starsi accanto in tutti i momenti, essere presenti e fedeli a se stessi, centrati su se stessi, pronti ascoltarsi per guardare dritto, davanti a sé, con la fiducia negli occhi e il coraggio nel cuore. Amarsi per vivere al meglio ogni momento, in tutto quello che ci capita. In quest’ottica, dovremmo pensare che il tempo sia per il progresso, come le emozioni: che dovrebbero essere sempre più belle, più intense, più autentiche.

Sempre Hesse, sempre in Gradini, scrive: “Dobbiamo attraversare spazi e spazi, / senza fermare in alcun d’essi il piede, / lo spirto universal non vuol legarci, / ma su di grado in grado sollevarci”, e forse il modo per amare questo tempo è amando noi stessi.

Buon tempo per amarvi a voi!

Luana

articolo pubblicato per la prima volta sul blog Caro Diario Social, 11 Gennaio 2019

©LUANA LAMPARELLI, copyright 2019| TUTTI I DIRITTI RISERVATI | LUANA LAMPARELLI.IT

Contatti: circolamparelli@gmail.com

Cari genitori, dove siete?

Cosa significa emozionare, emozionarsi?

Le emozioni e i sentimenti sono la stessa cosa?

E cosa vuol dire poi partecipare, o condividere?

Non intendo secondo vocabolario, o da manuale di psicologia. Vi sto chiedendo: adesso, adesso che leggete, sapreste dare una definizione per queste parole, una risposta tutta vostra? Vi soffermereste a interrogarvi sui loro significati, sulle loro implicazioni, o seguitereste a leggere la fila di vocali e consonanti fino al punto finale?

E convivere nelle stesse emozioni, convivere negli stessi sentimenti: possiamo dire che abbiano un significato preciso anche queste affermazioni del tutto mie e personali?

Fra noi umani possiamo condividere tutto tramite la parola, che consente di “mettere in comune” anche sentimenti ed emozioni. Le esperienze sono il campo di prova, un po’ per tutto se vogliamo: dalle nostre capacità e potenzialità, al nostro grado di empatia e sensibilità, di rispetto dell’altro, di attenzione e cura, di maturità e responsabilità, di condivisione. Questo grado, talvolta, può essere pari a zero, o addirittura inferiore, se dall’indifferenza passiamo al fastidio.

Sapete poi come e cosa vede un neonato?  (Permettetemi piccoli slalom apparentemente incoerenti.)

Nelle prime due settimane di vita il bambino è praticamente miope: distingue chiaramente solo quello che si trova a 20-25 cm dal proprio viso. Questo significa che, fondamentalmente, vede i volti di chi gli si avvicina. Del volto, poi, leggevo in un manuale di Psicologia dello sviluppo ai tempi dei miei studi universitari, i neonati sono particolarmente attratti dagli occhi. Perché sono lucidi, luminosi. Ai piccoli interessano le facce, gli occhi. Solo questione di sguardi? No, molto di più: attraverso il contatto visivo con i genitori, il legame e la fiducia del neonato si rafforzano, lasciando sfocato tutto il contorno affinché l’attenzione del bambino si focalizzi su ciò che davvero conta: il viso della mamma, la sua calma, il latte, l’affetto.

In questi ultimi giorni, un fatto di cronaca mi ha riportato alla mente gli anni in cui lavoravo come educatrice professionale nelle scuole elementari (la scuola primaria, ndr). In particolare, ho iniziato a rimacinare le riflessioni che facevo osservando i genitori durante le recite e i saggi dei loro figli.

Durante quelle manifestazioni di abilità e capacità, pazienza e tenacia di alunni e insegnanti, mi chiedevo come fosse possibile per i genitori essere lì e non partecipare davvero della vita di quei bambini, di quel momento in cui avevano di fronte a sé le proprie mamme e i propri papà eccezionalmente a scuola durante l’orario curriculare, non all’ora d’entrata o d’uscita come di solito. Mi chiedevo come potesse essere più importante prestare gli occhi e l’attenzione alla ripresa piuttosto che a cercare di comprendere tutti gli sforzi fatti per essere lì, in quel momento, a recitare ognuno la propria parte, a prescindere da cosa stessero “portando in scena”. Piuttosto che a incrociare lo sguardo del proprio bambino.

I bambini si guardavano intorno, ma cosa vedevano? Cellulari che nascondevano i volti dei propri genitori, ostacolo invalicabile per quel contatto visivo così importante già per un neonato. Chi cercavano quei bambini, guardando nella direzione dei propri genitori? Uno schermo scuro che schermava il volto dei propri parenti, o lo sguardo di sostegno e approvazione, di incoraggiamento?

Quali bambini stiamo educando, a cosa? “I bambini non ascoltano: i bambini guardano”, sostiene qualcuno: ci stiamo davvero occupando di quello che i bambini guardano, ovvero di quello che noi siamo, facciamo, comunichiamo, creiamo?

Dobbiamo reimparare a costruire ricordi. Che possono essere custoditi da una fotografia, magari – ma magari anche no. Perché l’emozione è così forte e ci ha rapiti così tanto che alle riprese non ci pensiamo affatto; o perché cipensiamo, ma ce ne infischiamo profondamente: conta davvero guardare con i propri occhi, con il proprio cuore e con la propria mente, non tramite un insignificante telefonino.

L’importante non è filmare, documentare, esporre: l’importante è essere e sentirsi vivi, poter raccontare da qui a cent’anni le imprese riuscite bene e quelle venute male, per sorridere delle nostre imperfezioni, per riconoscerci umani e ritrovarci più vicini, migliorare, incoraggiarci. Perché l’uomo è perfettibile, e questo per me conta più del nostro essere imperfetti.

Cosa raccontano fotografie e video più dei nostri abiti, dello spazio fisico in cui siamo, del’angolazione di ripresa? E se tutte le riproduzioni tecnologiche andassero perdute, cosa rimarrebbe? Riprendere non è vivere il momento.

Si chiama Gela il paese in cui due donne, una nonna e una zia, si sono azzuffate contendendosi il posto per le riprese migliori durante la recita di bambini d’una scuola d’infanzia, non a caso io credo: gela l’umanità, la tecnologia ha il sopravvento e noi c’impoveriamo sempre più. Quella recita, quel giorno, è saltata per aria; i bambini non hanno trovato sguardi amorevoli e incoraggianti ma spavento e preoccupazione. A Gela, come ovunque, come sempre più spesso.

Non solo non li ascoltiamo più come dovremmo, questi bambini: adesso non li guardiamo nemmeno più negli occhi. Come del resto sempre meno ci guardiamo in faccia noi, sempre meno ce le diciamo davvero le cose che pensiamo. Non ci rendiamo nemmeno conto del tempo che passa senza incontrarci: ci visualizziamo sui social, anziché incontrarci. Diventiamo followers, anziché persone. Cosa vuol dire poi persona?

A volte basterebbe uno sguardo per riconoscerci, ritrovarci, riconciliarci, sorriderci. Come per i neonati, a cui bastano quei 25 centimetri per focalizzare l’essenziale. A forza di citare il Piccolo Principe che dice “Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”, abbiamo dimenticato che gli occhi sono le finestre di meraviglia a cui il cuore s’affaccia. Almeno per me, che ho sempre lavorato con i non vedenti, è così. E noi, noi che abbiamo quelle finestre, non le spalanchiamo! Ci rendiamo ciechi, abbiamo disimparato a focalizzare lo sguardo su ciò che conta davvero. In mille modi diversi.

Pensare che uno sguardo può restarti dentro, forte e vivo, a dispetto del tempo, e una fotografia scolorire in una scatola scordata.

Cosa significano le parole emozione, sentimento, emozionarsi, emozionare, partecipare, condividere?

E sbaglio io, io che sono convinta che più delle case si convive nelle emozioni, negli stati d’animo, nei sentimenti?

Luana Lamparelli

articolo pubblicato per la prima volta su Caro Diario Social, 28 Gennaio 2019

©LUANA LAMPARELLI, copyright 2019| TUTTI I DIRITTI RISERVATI | LUANA LAMPARELLI.IT

Contatti: circolamparelli@gmail.com

Parole a coda lunga

Sono un’educatrice, “professionale” specifica la mia laurea da 110 e lode, ma sono anche una scrittrice. A tratti sono prestata all’insegnamento delle Scienze Umane, e così mi ritrovo dall’altra parte della cattedra nei panni di prof a insegnare psicologia, sociologia, antropologia, pedagogia e filosofia. Quando ce n’è bisogno, mi occupo anche di comunicazione, recensioni, critica letteraria, editing. I più mi conoscono soprattutto come autrice: scrittrice di romanzi, racconti, poesie. Qualcuno mi chiede spesso come si conciliano tra loro le mie professionalità e competenze differenti. Sorrido e rispondo: al centro di tutto c’è lo strumento più potente che abbiamo, e anche il migliore se sappiamo usarlo con  saggezza e ponderatezza: la parola.

La parola, che porta in sé i significati di comunicare, raccontare, insegnare, imparare, educare. Parole che, a loro volta, sono cariche di altri mille significati e rimandi, su più piani. In fondo, a bene guardare, tutti i miei mestieri hanno come base comune l’educare e il comunicare.

Educare deriva dal latino educere, che vuol dire tirar fuori. Contrariamente a quanto generalmente si pensi, educare qualcuno significa permettergli di “partorire” quel che davvero egli è, con le sue capacità, le sue competenze, i suoi limiti, i suoi difetti, le sue potenzialità, di conoscersi meglio. Poiché non si smette mai di crescere e cambiare, non si smette mai di “darsi alla luce”, conoscersi nelle nuove forme che di volta in volta assumiamo. L’educatore ci aiuta in ciò, ci fornisce gli strumenti necessari di volta in volta, ci accompagna nel processo di crescita e consapevolezza. Come? In primo luogo, con la comunicazione, comunicando, ovvero “mettendo in comune”. Comunicare ed educare sono strettamente connessi: ecco come si conciliano i miei mestieri, stesse facce di un’unica medaglia. E quella medaglia sono io, siamo tutti noi, anche quando non siamo “educatori professionali” ma semplicemente siamo nel mondo come genitori, insegnanti, colleghi, amici, compagni. È chiaro che ognuno di noi può educare se stesso.

In questo momento storico, comunicare ed educare sono due sfide fondamentali, urgenti direi, a cui ognuno di noi è chiamato. Questo è vero sia per la nostra vita privata sia per quella di cittadini, riguarda tutti i ruoli che ciascuno di noi ricopre; soprattutto, ci invita a riconsiderare i concetti di responsabilità e partecipazione, richiede la capacità di osservare, riflettere, rivalutare.

Nasce da queste considerazioni e da quel che osservo tramite la vita reale e i social “Parole a coda lunga”, la mia nuova rubrica pensata appositamente per Caro diario social, il blog della cooperativa Dinamica Onlus.

 “Parole a coda lunga” è un concetto proprio del digital marketing, disciplina a cui sempre più mi avvicino perché sono convinta che vada a braccetto con la sociologia e la psicologia, anzi: credo ne sia l’evoluzione 2.0. Perché anche se scriviamo attraverso interfacce e comunichiamo da remoto, quando creiamo un contenuto dobbiamo ricordare che è per le persone. Finché restiamo umani, avremo sempre a che fare con le persone.

Parole a coda lunga, come accennavo, è un’espressione propria del mondo web, anzi: è una parola del mondo web.

Fare una ricerca “a coda lunga” significa digitare sulla stringa di ricerca una frase specifica per poter ottenere il risultato più vicino alle nostre aspettative o necessità. Quindi eseguire una ricerca che non ci faccia perdere nella rete, come accade quando ne eseguiamo una digitando solo una parola o due.

È una ricerca che porta a prodotti di nicchia, direbbe qualcuno. È una strategia che ottimizza tempi, risorse (come l’attenzione) e risultati, dico io e sottolineano molti (già parecchio prima di me). Sicuramente usare parole a coda lunga significa avere ben chiaro quello che si cerca e si vuole. E di solito chi sa quel che vuole non si accontenta, è capace di mettere in discussione, criticare in maniera intelligente, di ascoltare l’altrui punti di vista per un confronto autentico. Indubbiamente, poi, usare parole a coda lunga significa cercare qualcosa che sia fuori dalla massa.

Ecco, allora, di cosa mi occuperò in questa rubrica: condividerò con voi le mie considerazione su parole  e messaggi veicolati dai più popolari mezzi di comunicazione (e popolare non è sinonimo di autorevole), con un occhio attento all’estensione, alla portata e alla pluralità di significati a cui rimanda quella parola, o quel messaggio. Alle volte saranno delle “conversazioni” un po’ complesse, ma ogni pedagogista ed educatore lo sa: abbiamo bisogno del paradigma della complessità, del suo esercizio consapevole e responsabile, soprattutto oggi.

Come educatrice e scrittrice, mi concedo il lusso di trasporre la famosa definizione “parole a coda lunga” dal mondo del digital marketing all’ambito psicologico, sociologico, letterario, e di discutere con voi su quel che (ci) accade partendo dalle parole e dai significati.

Non mi resta che darvi appuntamento alla nostra prima parola, per la prossima settimana.

Se volete, potete anche indicarmi voi stesse parole, affermazioni e messaggi ascoltati qui è là, o condividere con me le vostre riflessioni sugli articoli letti, scrivendomi a: circolamparelli@gmail.com.

Luana Lamparelli

articolo pubblicao per la prima volta sul blog Carodiario social, 14 Dicembre 2018

©LUANA LAMPARELLI, copyright 2018, 2019| TUTTI I DIRITTI RISERVATI | LUANA LAMPARELLI.IT

Contatti: circolamparelli@gmail.com