Parole a coda lunga

Sono un’educatrice, “professionale” specifica la mia laurea da 110 e lode, ma sono anche una scrittrice. A tratti sono prestata all’insegnamento delle Scienze Umane, e così mi ritrovo dall’altra parte della cattedra nei panni di prof a insegnare psicologia, sociologia, antropologia, pedagogia e filosofia. Quando ce n’è bisogno, mi occupo anche di comunicazione, recensioni, critica letteraria, editing. I più mi conoscono soprattutto come autrice: scrittrice di romanzi, racconti, poesie. Qualcuno mi chiede spesso come si conciliano tra loro le mie professionalità e competenze differenti. Sorrido e rispondo: al centro di tutto c’è lo strumento più potente che abbiamo, e anche il migliore se sappiamo usarlo con  saggezza e ponderatezza: la parola.

La parola, che porta in sé i significati di comunicare, raccontare, insegnare, imparare, educare. Parole che, a loro volta, sono cariche di altri mille significati e rimandi, su più piani. In fondo, a bene guardare, tutti i miei mestieri hanno come base comune l’educare e il comunicare.

Educare deriva dal latino educere, che vuol dire tirar fuori. Contrariamente a quanto generalmente si pensi, educare qualcuno significa permettergli di “partorire” quel che davvero egli è, con le sue capacità, le sue competenze, i suoi limiti, i suoi difetti, le sue potenzialità, di conoscersi meglio. Poiché non si smette mai di crescere e cambiare, non si smette mai di “darsi alla luce”, conoscersi nelle nuove forme che di volta in volta assumiamo. L’educatore ci aiuta in ciò, ci fornisce gli strumenti necessari di volta in volta, ci accompagna nel processo di crescita e consapevolezza. Come? In primo luogo, con la comunicazione, comunicando, ovvero “mettendo in comune”. Comunicare ed educare sono strettamente connessi: ecco come si conciliano i miei mestieri, stesse facce di un’unica medaglia. E quella medaglia sono io, siamo tutti noi, anche quando non siamo “educatori professionali” ma semplicemente siamo nel mondo come genitori, insegnanti, colleghi, amici, compagni. È chiaro che ognuno di noi può educare se stesso.

In questo momento storico, comunicare ed educare sono due sfide fondamentali, urgenti direi, a cui ognuno di noi è chiamato. Questo è vero sia per la nostra vita privata sia per quella di cittadini, riguarda tutti i ruoli che ciascuno di noi ricopre; soprattutto, ci invita a riconsiderare i concetti di responsabilità e partecipazione, richiede la capacità di osservare, riflettere, rivalutare.

Nasce da queste considerazioni e da quel che osservo tramite la vita reale e i social “Parole a coda lunga”, la mia nuova rubrica pensata appositamente per Caro diario social, il blog della cooperativa Dinamica Onlus.

 “Parole a coda lunga” è un concetto proprio del digital marketing, disciplina a cui sempre più mi avvicino perché sono convinta che vada a braccetto con la sociologia e la psicologia, anzi: credo ne sia l’evoluzione 2.0. Perché anche se scriviamo attraverso interfacce e comunichiamo da remoto, quando creiamo un contenuto dobbiamo ricordare che è per le persone. Finché restiamo umani, avremo sempre a che fare con le persone.

Parole a coda lunga, come accennavo, è un’espressione propria del mondo web, anzi: è una parola del mondo web.

Fare una ricerca “a coda lunga” significa digitare sulla stringa di ricerca una frase specifica per poter ottenere il risultato più vicino alle nostre aspettative o necessità. Quindi eseguire una ricerca che non ci faccia perdere nella rete, come accade quando ne eseguiamo una digitando solo una parola o due.

È una ricerca che porta a prodotti di nicchia, direbbe qualcuno. È una strategia che ottimizza tempi, risorse (come l’attenzione) e risultati, dico io e sottolineano molti (già parecchio prima di me). Sicuramente usare parole a coda lunga significa avere ben chiaro quello che si cerca e si vuole. E di solito chi sa quel che vuole non si accontenta, è capace di mettere in discussione, criticare in maniera intelligente, di ascoltare l’altrui punti di vista per un confronto autentico. Indubbiamente, poi, usare parole a coda lunga significa cercare qualcosa che sia fuori dalla massa.

Ecco, allora, di cosa mi occuperò in questa rubrica: condividerò con voi le mie considerazione su parole  e messaggi veicolati dai più popolari mezzi di comunicazione (e popolare non è sinonimo di autorevole), con un occhio attento all’estensione, alla portata e alla pluralità di significati a cui rimanda quella parola, o quel messaggio. Alle volte saranno delle “conversazioni” un po’ complesse, ma ogni pedagogista ed educatore lo sa: abbiamo bisogno del paradigma della complessità, del suo esercizio consapevole e responsabile, soprattutto oggi.

Come educatrice e scrittrice, mi concedo il lusso di trasporre la famosa definizione “parole a coda lunga” dal mondo del digital marketing all’ambito psicologico, sociologico, letterario, e di discutere con voi su quel che (ci) accade partendo dalle parole e dai significati.

Non mi resta che darvi appuntamento alla nostra prima parola, per la prossima settimana.

Se volete, potete anche indicarmi voi stesse parole, affermazioni e messaggi ascoltati qui è là, o condividere con me le vostre riflessioni sugli articoli letti, scrivendomi a: circolamparelli@gmail.com.

Luana Lamparelli

articolo pubblicao per la prima volta sul blog Carodiario social, 14 Dicembre 2018

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Contatti: circolamparelli@gmail.com

La creatività di Roberto Marzano

Ritorno a condividere le piacevoli conversazioni con persone in gamba davvero.

Oggi vi presento Roberto Marzano. Chi è, ma perché, cosa fa, come mai proprio lui?

 

 

Prima di entrare nel vivo della nostra intervista, voglio rispondere al “perché”: in una società come la nostra c’è bisogno di conoscere persone come Roberto Marzano.

Roberto Marzano è nato a Genova il 7 marzo 1959 e ama definirsi poeta e narratore “senza cravatta”, chitarrista, cantautore naif e “bidello giulivo”.

Barcollando tra sentimento e visioni, verseggia di vagabondi e di prostitute, di amori folli, di ubriachi e dei quartieri ultrapopolari dov’è vissuto. Meditabondo, si arrabatta tra città arrugginite, bar chiusi, televisori diabolici, supermercati metafisici, operai, nottambuli… e oggetti inanimati ai quali dà viva voce. Un poetare pregno di originalità e dell’ironia pungente che lo ha  già contraddistinto nel campo della canzone d’autore.

Sembra uno stralcio estrapolato da una biografia fantastica, la presentazione di un personaggio-poeta nato dalla fervida immaginazione e dalla penna di uno scrittore, invece no: è la biografia di Roberto Marzano, ligure doc in carne e ossa. Ma non finisce qui. In merito alla sua passione per la musica e alla sua esperienza come musicicsta, in un probabile romanzo firmato da Fermin Romero de Torres (se fosse un autore fantasmagorico ad aver inventato Roberto Marzano, sarebbe proprio Fermin, il famoso personaggio inventato da Carlos Ruiz Zafòn nella sua tetralogia Il Cimitero dei libri dimenticati) :

Molto applaudite le sue performance tenutesi a Roma, Torino, Milano, Napoli, Bologna, Bari, Trieste,  Matera, Modena, Como, Alessandria, Crema, Sanremo, Savona e nella sua Genova: variopinti quadretti dove i versi vanno a incastrarsi nelle corde della chitarra, in un divertente e originale collage di endecasillabi, sberleffi e canzoni scoppiettanti che suscitano, volutamente, sorpresa e ilarità. Inventatosi l’improbabile casa editrice “SiFaPerFarBenEdizioni”, produce una serie di “Quadernetti Poetici” a tema, con poeti, narratori, pittori, fotografi italiani e stranieri.

I “Quadernetti Poetici” sono un progetto editoriale di straordinaria bellezza. Uniscono voci e sguardi differenti intorno a un unico tema, sviluppando così un lavoro corale, dove ogni voce resta autentica e unica nella sua singolarità, unendo e favorendo l’incontro con personalità che spaziano sia per geografia sia per specificità artistica. Non solo: da un punto di vista grafico, sono opere d’avanguardia: confrontando i volumi del design contemporaneo in materia di editoria, Marzano con le sue scelte stilistiche, le sue impaginazioni, le sue rese grafiche precorre i tempi. Lo studio minuzioso e calibrato tra testi, temi e autori è alla base della progettazione di ogni singolo quadernetto, ben diverso dagli altri; l’immaginazione vivace, l’allegria intellettuale di Roberto Marzano, la sua capacità carismatica e il suo lavoro “dietro le quinte”, la sua leadership letteraria e culturale costituiscono il fil rouge che unisce fra loro tutti i numeri.

 

  1. “Sedani mimose mandarini e rose” è il tuo nono quadernetto poetico che raccoglie componimenti di più autori: come e quando nasce l’idea che ha dato il via al primo numero?

La voglia e l’idea nascono dal piacere di dare spazio a chi fa fatica a trovarne. Anch’io ci sono passato, per cui dare la possibilità di essere pubblicati gratuitamente ad artisti di ogni tipo mi dava e mi dà immensa soddisfazione. Nei miei “quadernetti (dove convivono pacificamente dilettanti e artisti più affermati) non c’è nessuna selezione: tutti sono pubblicati aldilà del valore delle proposte che, comunque, è sempre di ottimo livello. Unico “regolamento” (che mi sembra più giusto del banale ordine alfabetico) è quello di pubblicare in ordine di arrivo dei contributi.

 

 

 

  1. Cosa è cambiato strada facendo tra la prima edizione e quest’ultima?

Di sicuro la qualità della pubblicazione. Man mano che vado avanti acquisisco sempre più capacità tecniche per impreziosire i “quadernetti poetici”. Diciamo che “per amor dell’arte” mi piace complicarmi un po’ la vita. Per cui sperimento su colori e situazioni d’impaginazione. I “quadernetti” sono piuttosto coloriti e colorati, disomogenei nella grafica, un tantino infantili, quasi naif. L’intento è quello di discostarsi dalla consueta veste di altre, pur rispettabilissime – detto senza alcuna ironia – antologie. Provo a dare una botta di vita a un ambiente talvolta rigido e ingessato, con la tendenza a prendersi troppo sul serio. Qui, di “serio”, non c’è proprio nessuno! La partecipazione è libera e a costo zero, fatta solo per amore delle arti e della loro divulgazione. Il risultato potrà anche apparire kitsch o un po’ pacchiano, ma la mia poca voglia di “serietà” deve in qualche maniera esternarsi, e i “quadernetti” vanno proprio in quella direzione.

 

 

  1. Ogni quadernetto ha un suo tema: cosa ti ispira per la proposta da fare puntualmente ogni anno ai poeti e scrittori che decidono di collaborare al tuo progetto?

Sinceramente cerco di proporre i temi più nelle mie corde, quelli che stimolano, se ce ne fosse bisogno, la mia creatività. Temi di solito non convenzionali nei quali gabbiani, tramonti e cuori infranti difficilmente trovano posto. La risposta dei partecipanti (non solo poeti ma, anche, disegnatori, pittori, fotografi, scultori e prosatori da tutta l’Italia ma non solo) è incoraggiante e in continua espansione.

 

  1. Quest’ultimo tema è brioso, colorato, profumato e ironico già nel titolo. Contiene qualche elemento autobiografico nascosto?

Ci sono e non ci sono… Nel senso che qualcosa di chiunque si può rintracciare in una mela come in un fiore. A chi non è capitato di sentirsi depresso come un cipresso o bello come una rosa? Di cadere come una pera, di farsi accarezzare dal vento desiderosi di essere sgranocchiati come un sedano o di voler aprirsi al mondo come fossimo profumati mandarini?

L’ironia è per me un vero e proprio modo di essere – sono così anche fuori dai miei versi – che per forza di cose si ripercuote nello stile poetico. Ironia per esorcizzare e dissacrare i luoghi comuni, le feste comandate, le divise sociali, ma anche gli orrori (quelli veri) che ci travolgono ogni giorno.

 

 

  1. Questo progetto ti appartiene interamente. Sei tu, infatti, che proponi il tema, che coordini i lavori, che gestisci l’editing, l’impaginazione e anche la grafica. Cosa puoi dirmi in merito al connubio che puntualmente crei tra contenuti grafici e testi?

Lavorare da soli ha indubbiamente i suoi vantaggi, come tutti gli artisti ben sanno. Cerco di dare una certa attinenza ai contenuti con i colori dei caratteri ma anche con quelli dominanti delle fotografie.

 

  1. Sei un esperto di grafica? Come nascono le tue impostazioni grafiche per ogni quadernetto poetico?

No, sono solo un praticone che si evolve man mano che aumenta l’esperienza sul campo. C’è una certa ricerca sui font che utilizzo per il nome degli artisti, assieme alla combinazione di colori diversi per ogni carattere alla ricerca di un equilibrio cromatico che renda ogni pagina assolutamente diversa dalle altre. Comunque, la cosa che mi sollazza di più è creare le copertine che cerco di realizzare più accattivanti possibile.

 

  1. Parlaci di te a ruota libera!

Sono di Genova, non sono un grafico ma graficheggio, non sono laureato in lettere ma verseggio, non ho fatto il Conservatorio ma suono, e insegno, la chitarra da svariati decenni. La fortuna di avere un lavoro sicuro fa sì che possa sbizzarrirmi liberamente, senza alcun compromesso al fine di tirarci fuori del vile denaro. Di lavoro faccio il bidello e il rapporto con i ragazzi e certi insegnanti mi dà tanta soddisfazione e nuova linfa nel mio incedere poetico, musicale e creativo in ogni senso. Ho pubblicato un romanzo, una raccolta di racconti e cinque di poesie. A settembre uscirà “Hanno ammazzato il tempo” a cura di “Il piacere di scrivere”. Mi diverto a proporre un po’ dappertutto le mie performance poetico-musicali che assomigliano parecchio ai “quadernetti”: variopinti quadretti dove versi e gag vanno a incastrarsi nelle corde della chitarra, in un divertente e originale collage di endecasillabi, sberleffi, sorprese e canzoni scoppiettanti che suscitano, volutamente, sorpresa e ilarità.

Amo la vita e i miei figli, la musica, i libri, i cani,  il cinema, i bambini, il teatro, la pittura, la fotografia che, fortunatamente, contraccambiano.

Non mi resta che suggerirvi il link per l’ultimo quadernetto pubblicato, Sedani mimose mandarini e rose, dove trovate anche un mio contributo poetico allegramente ispirato dal titolo. Vi invito a curiosare anche tra i numeri precedenti (nelle immagini che accompagnano questo articolo, ne vedete tutte le copertine): ogni numero è fruibile gratuitamente online.

 

Vi lascio con alcuni approfondimenti sulle attività promosse da Roberto Marzano, sulle sue pubblicazioni e sui premi che ha vinto, ma prima permettetemi di dire che scoprendo questa mente geniale e meravigliosa ho pensato: per i nostri ragazzi, per i nostri bambini, per i nostri studenti e per tutti noi, Roberto Marzano è un esempio grandioso, l’esempio che declina quella citazione “Prendete la vostra vita e fatene un capolavoro” in un ritratto reale e a noi vicino.

Luana Lamparelli

 

 

Roberto Marzano, qualcosa di più sul nostro autore: 

A Genova, tra il 2016 e il 2017, ha organizzato le rassegne poetiche “Binari InVersi” e “Poetando” che con grande successo hanno visto la partecipazione di artisti da tutta l’Italia. Inventatosi l’improbabile casa editrice “SiFaPerFarBenEdizioni”, produce una serie di “Quadernetti Poetici” a tema, con poeti, narratori, pittori, fotografi italiani e stranieri.

I suoi versi sono stati tradotti in spagnolo da Carlos Vitale, in francese da Cinzia Calì, in inglese da Monica Luxardo, in genovese da Bruna Pedemonte e in tedesco da Günter Melle.

Come musicista (Roberto Marzano & gli “Ugolotti” e “Small Fair Band”) si è esibito in centinaia di concerti.

 

Ha pubblicato: “Extracomunicante. Dov’è finita la poesia?”- De Ferrari (2012); “Senza Orto né Porto”- Edizioni di Cantarena – QP (2013);  “Senza Orto né Porto”- Bel-Ami Edizioni (2013); L’Ultimo Tortellino… e altre storie” (racconti) – Matisklo Edizioni (2013); “Dialoghi Scaleni” – Matisklo Edizioni (2014); “Come un Pandoro a Ferragosto” (romanzo) – Rogas Edizioni (2015); M’illumino di mensole” – Matisklo Edizioni (2016).

 

Ha vinto il Premio Nazionale“ FITEL 2002” – Roma; la III Rassegna Letteraria “Monte Zignano 2008″ – Genova; la XXI Edizione Concorso Letterario “Don Lelio Podestà 2010” – Chiavari (Ge);  la III Edizione del “Concorso Letterario Bel-Ami 2013” – Napoli; Premio Nazionale di Poesia “La Bormida al Tanaro Sposa 2014” – Mallare (Sv); Concorso “Trieste… Invito alla Poesia 2016” – Trieste; Premio letterario “L’albero di rose 2017” – Accettura (Mt); Concorso fotografico e poetico “La  Paura e la Città 2017” – Bologna.  Innumerevoli  piazzamenti, “menzioni”, “premi speciali” e “segnalazioni”.

 

Immagini di copertina dei “Quadernetti Poetici” © Roberto Marzano

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Una balena è la poesia

“UNA BALENA È LA POESIA” – LABORATORIO DI SCRITTURA POETICA

 

Giovedì 24 Maggio, così come da calendario del programma di eventi “Ruvo in poesia” organizzato dall’associazione culturale In Folio e da Circo Lamparelli con il patrocinio del Comune di Ruvo di Puglia, si terrà il laboratorio di scrittura poetica “Una balena è la poesia”, presso Palazzo Caputi Museo del Libro e Casa della Cultura di Ruvo dalle 17:00 alle 19:00.

A condurlo la sua stessa ideatrice e curatrice, la scrittrice ruvese Luana Lamparelli.

Il laboratorio “Una balena è la poesia” è un percorso che mira a far arrivare la poesia alla vita di tutti i giorni e a scoprirla nella sua semplicità, nella sua immediatezza, obiettivo molto a cuore dell’autrice, perché la poesia è espressione di un sentire preciso e acuto nella frenesia o nell’abitudine della quotidianità, come un ricordo che viene a trovarci mentre laviamo i piatti, o un lampo di meraviglia durante il solito viaggio in treno da pendolari. Per questo il laboratorio nasce pensato per chiunque, non è indirizzato solo a chi è già appassionato di poesia o avviato nella sua composizione.

Nella prima parte del laboratorio sarà proposta la visione di un cortometraggio realizzato da un noto artista dell’animazione e da un famoso pittore. Il cortometraggio non riguarda la poesia ma è stato scelto dall’autrice Lamparelli perché “metafora” della poesia stessa. Attraverso la visione di altre immagini, dipinti e fotografie, tramite la spiegazione di questo nome curioso per un laboratorio di scrittura poetica, parlerà del potere evocativo e suggestivo della parola che si fa polisemantica non solo attraverso il contesto in cui è inserita ma soprattutto tramite il dipanarsi di emozioni che riesce a creare o rievocare in chi legge, divenendo così non solo strumento dell’immagine, ma invitando l’immaginazione a soffermarsi sulle altre percezioni sensoriali o su stati d’animo. Saranno inoltre spiegati e presentati alcuni aspetti tecnici propri dello scrivere in versi, fornendo gli strumenti basilari e indispensabili, e saranno letti dei brani in prosa rappresentativi del punto di vista poetico.

Il momento finale del laboratorio sarà operativo: chi vorrà potrà dedicarsi alla composizione di una poesia collettiva, o individuale, in base alla decisione del gruppo, poiché il momento finale del laboratorio vede protagonista attivo il gruppo dei partecipanti più delle altre fasi. Chi lo desidera potrà proporre dei componimenti precedentemente elaborati, per il piacere della condivisione o per lavorarci su insieme all’autrice.

Il laboratorio di scrittura poetica è gratuito. Per iscriversi occorre inviare una mail all’indirizzo circolamparelli@gail.com oppure utilizzare l’apposito form sul sito www.luanalamparelli.it, sezione Eventi. Il corso è dedicato a un numero di quindici partecipanti. Se le iscrizioni dovessero superare il numero previsto, saranno accettate le prime quindici pervenute in ordine di tempo. Ogni mail ricevuta avrà una risposta.

*****

Luana Lamparelli, educatrice professionale, docente in Scienze Umane, scrittrice e poetessa.

Ha pubblicato due romanzi (Giardini senza tempo, 2012, e Piccoli silenzi desiderabili, 2014), diversi racconti pubblicati su riviste nazionali digitali e cartacee, come Vanity Fair e Versante Ripido.

 

Erri De Luca, La natura esposta

Il primo libro letto in questo 2018 appena iniziato è “La natura esposta” di Erri De Luca.

Il protagonista non ha nome, almeno non per il lettore. È un uomo di montagna, scultore talentuoso (a detta di una donna ora non più nella sua vita) ma riservato, senza pretese né ambizione.

Chi credi di essere, se non sei brillante e magnifico? Siamo i bambini della divinità. Far la parte degli incapaci non rende giustizia al nostro creatore. Non è giusto diminuirsi, per non disturbare gli altri intorno a noi. Siamo fatti per splendere come fanno i bambini. Dobbiamo manifestare con gratitudine i doni ricevuti. Quando tu sei brillante e magnifico, incoraggi gli altri a esserlo anche loro. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 81)

Per vivere ripara piccoli pezzi di statue rotte, lavora pezzi di legno che recupera durante escursioni e soprattutto accompagna oltre confine, passando tra i monti, tutta la gente che vuole andare altrove: gli immigrati, i clandestini. Non è il solo a farlo: altri due suoi amici di paese, il fabbro e il fornaio, hanno il suo stesso doppio lavoro. La sola differenza tra il protagonista e gli altri due è che lui restituisce i soldi quando giunti al momento del distacco, quello a partire dal quale i viaggiatori saranno al di là del confine e lui pronto a tornare indietro. Perché lo fa? Perché reputa che sia giusto così.

Quando la voce si sparge, è costretto a lasciare il villaggio di montagna. Per il suo esilio sceglie in un paese di mare, dove riceve un incarico: restaurare una statua di marmo che rappresenta il Cristo in croce ripristinandola a quel che era la reale intenzione dello scultore artefice. La statua, infatti, era originariamente nuda, ma col Concilio di Trento la Chiesa aveva fatto coprire con drappeggi tutte le parti intime scoperte.

Inizia così il vero viaggio del protagonista. Sempre abituato ad attraversare confini scalando montagne che conosce benissimo, si trova ora a scoprire e indagare le vere intenzioni dello scultore padre dell’opera affidatagli. L’espediente dell’arte, del lavoro artistico, diviene motivo di ricerca interiore, di dialogo con sé e con altre voci diverse da sé. Insieme al lavoro di restauro che procede, la vita di tutti i giorni a cui non possiamo sottrarci: perché ci viene a cercare. Come l’amore, o come la sua assenza.

Sembra quasi che De Luca abbia voluto trasporre nell’immagine dello scultore quella scrittore, creando analogie e parallelismi tra i due mestieri: ci si dedica anima e corpo a una storia non nostra, in qualche modo, da scoprire, osservare, codificare e infine completare col lavoro della scrittura, esattamente come accade allo scultore. La scultura è il risultato di un lavoro di sottrazione, come Michelangelo Buonarroti ben dichiarava; la scrittura è un lavoro di addizione: di parole, immagini da evocare, sentimenti da trasferire, in un certo senso tramandare. Non è un caso, secondo me, se il romanzo di De Luca termina esattamente quando il restauro è finito, quando la parte mancante, il sesso del Cristo (da qui il titolo dell’opera), è nuovamente parte integrante della statua. La scrittura ha scoperto l’ultima parola, che coincide con l’ultima azione dello scultore reastauratore.

Ci sono frasi bellissime, di una poesia disarmante, folgoranti perché scavano dentro di noi, fino alla parte nostra più delicata, più nascosta e segreta (quasi come l’intimità del Cristo), per accarezzarla.

L’universo mescola i suoi frammenti, niente è alieno. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 114)

(Erri De Luca, immagine dal web)

La fine del’inverno stiracchia di minuti la giornata. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 89)

 

‘Non sai perdere.’

Non rispondevo, però zitto pensavo il contrario. Lo so fare, so perdere tutto.

Adesso che non c’è, glielo dico nel buio. Avevi ragione, non so perderti. Continuo a strepitare in cuore come un pollo strozzato. Non succede due volte di essere amato con l’intesità di una missione. Non succede a molti di noi neanche una volta. (Erri De Luca, La Natura Esposta, pg. 39)

Durante il lavoro di restauro per riportare la statua alla sua originaria nudità, sottraendo il drappeggio in marmo aggiunto a posteriori, il protagonista racconta di sé. La creazione di una nuova nudità del Cristo procede di pari passo con un dialogo intimistico, una sorta di viaggio di scoperta. Con il narrarsi del protagonista, si scopre che ha perso un gemello a sei anni, ma entrambi in una certa maniera sono cresciuti insieme pur dopo la morte dell’altro. Perché possiede uno spazio anche per l’altro, chi resta. Uno spazio in cui parla, una voce che gli parla: questo continua a possedere chi ci lascia in chi resta.  E poiché tutti noi abbiamo perso qualcuno di cui però ancora sentiamo la voce, come una guida, con tutto l’amore che provava per noi, tutto questo ci avvicina ancor più al protagonista. Proprio così come la statua – con la sua storia e i suoi segreti scalfiti nel marmo – avvicina il protagonista ora al suo primo artefice, ora al Cristo, pur non essendo credente.

È primavera, ho svernato insieme a una statua. Cambiando di mano agli arnesi posso dire di avere scolpito a due mani. Abbiamo finito, le mani e io, la mano di mio fratello e la mia. La sua vita travolta prosegue in me. C’è spazio in ognuno per ospitare gli assenti.   (Erri De Luca, La natura esposta, pag.95)

In questo libro c’è l’umiltà, la parte più modesta di tutti coloro che hanno dovuto rinunciare a qualcosa di cui percepiscono l’eco tra il mare e le montagne, tra quegli spazi infiniti e sconfinati come il nostro Io più nostalgico. Così è l’immigrato musulmano esperto di Corano con cui si confronta il protagonista per conoscere meglio alcuni dettagli che, tramite il tatto, coglie sulla statua. Così sono gli immigrati, che tanto spesso svolgono lavori semplici, conducono vite isolate, eppure potrebbero insegnarci tanto, se solo anche noi fossimo umili di fronte all’ascolto, al racconto. Perché spesso provengono da storie molto più ricche del lavoro silenzioso che svolgono nella dignità della semplicità.

Di notte il mare mi metteva nostalgia di terra. (…) Non conosco nessuno senza nostalgia di un’ora e di qualcuno. Sul peschereccio di notte ne avevo così tanta da far diventare voci le onde. E rispondevo in berbero, la mia lingua d’infanzia. (Erri De Luca, La natura esposta, pgg. 96-97)

Non a caso, il protagonista riuscirà a comprendere le intenzioni dell’autore della statua grazie al confronto con tre figure differenti, tre uomini con cui dialoga in momenti distinti: un rabbino, un musulmano e il prete che lo ingaggia per l’impresa. Per dirla con Lévinas, “l‘altro è apertura all’infinito”, e questo infinito nel romanzo di De Luca si avvera autenticamente, quasi un’epifania a cui la pazienza e la dedizione approdano; coincide con la statua che ritrova la sua originalità grazie alla sinergia di più voci capaci di coesistere nonostante le differenze culturali.

C’è l’amicizia vera, insieme all’inganno e alla salvezza, in questo romanzo di De Luca. Ci sono, a parer mio, tutti gli elementi della storia del Cristo, che sono poi gli elementi dell’umanità spogliata di tutte le sue sovrastrutture. Denudata, esposta.

 

“La Natura Esposta” è per me uno di quei pochi libri che, dopo la lettura, richiedono Silenzio, quel silenzio a me tanto caro dove ogni parola brilla e si fa scintilla per altri pensieri e sentieri dentro di noi; allora restare in silenzio si fa necessario per assaporare l’intera storia fino in fondo, come merita.

Non ho amato questo libro da subito: come le migliori persone, richiede tempo per rivelarsi, per farsi conoscere nella sua unicità, per farsi amare.

Ne ho letto la prima pagina il primo Gennaio, in aereo, sorvolando l’Italia. Non è il primo viaggio che fa:  è infatti un caro ricordo del mio viaggio in Sardegna, Isola della Maddalena, durante lo scorso Giugno 2017. Adesso molte sue frasi mi accompagneranno in diversi momenti, come un’eco, avvicinandomi a luoghi solo miei e riconciliandomi col mondo. Perché molto spesso abbiamo bisogno di sapere che non siamo gli unici a osservare le stelle che splendono in cielo di notte con quello sguardo lì.

Vorrei dire grazie a Erri De Luca.

Chissà, forse un giorno glielo dirò.

 

Foto ©circolamparelli

 

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LA POESIA, ALMENO QUELLA

La poesia, questa mano più grande di me, questa bocca che parla, questo cuore che sente quando io non voglio sentire, questo occhio che guarda cose invisibili da prospettive sempre nuove e imprevedibili.
La poesia, questa bambina, voce imponente che a volte mi rende impotente dei gesti che vorrei – costringendomi a sedermi, schiena ricurva, polso che scivola su fogli non più immacolati.
La poesia – io non la volevo, ma mi tende agguati, ma la cerco, ma la amo. Non sempre mi sorprende, di rado mi commuove, più spesso mi fa storcere il naso. Ma esiste – che io lo voglia o no, è il sasso in cui sempre inciampo.

La poesia – e mi sospinge dita a girar pagine, a scrivere ancora, a cercare altrove così come a guardarmi dentro.

No, non la smetto.

(©Luana Lamparelli 2017)

Queste parole, nate come un flusso repentino su un freddo monitor, le ho poi scritte a mano. Non solo. “Cerca su internet le light novel, dagli un’occhiata”, mi ha detto un giorno qualcuno. Da quel giorno ho ripreso a disegnare. Ebbene, a queste stesse parole ho aggiunto due disegni piccoli. Ne è venuta fuori una pagina particolare del mio grande quaderno, quello che porto sempre in borsa, su cui appunto tutto, e che qualcuno ha visto steso su tavolini di bar mentre parlavo con altra gente. Eccola qui, a portata di click.

 

Oggi è il 21 Marzo, giornata mondiale della poesia. Da tempo, per questa giornata, avevo iniziato a cercare poesie. Alcune mi hanno colpita più di altre, tanto da decidere di inserirle in questa pagina, fotografate. Ho anche deciso di non limitarmi a questa giornata: aggiungerò foto di tutte le poesie che nel tempo troverò. Le caricherò man mano che quelle belle davvero – belle per me, umilmente – mi colpiranno, verranno a cercarmi, spunteranno.

Qui di seguito riporto i titoli insieme al nome degli autori dei versi che, in foto, seguono:

  1. DUE DI UNO, racconto tratto da “Inventario dei sogni” di Vitantonio Lillo.
  2. INCONTRO SOGNATO IN FORMA DI HAIKU, racconto tratto da “Inventario dei sogni” di Vitantonio Lillo.
  3. NON CI SALVEREMO, poesia tratta da “Un mondo come un clamoroso errore” di Paolo Polvani.
  4. A T., poesia tratta da “Bestiario fiorito” di Vitantonio Lillo.

 

 

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HOUSTON, LA PRIMAVERA

 

(Parte la solita musichetta mentre parlo con Houston. Oggi suona Yann Tiersen, se fate click lo sentite anche voi.)

HOUSTON, DA QUANTO TEMPO È CHE NON CI SENTIAMO?

Sì, lo so: sono io la latitante. Ma ti penso, cosa credi? Non ti scrivo, è solo questo.

Come tante mail che recito nella mia mente, tra la frenesia e l’andirivieni del quotidiano, e che sempre rimando: a un altro momento che puntualmente non arriva mai. Teresa a Parigi, lei che mi chiamava “Lulùdaimillecolori”, è forse l’unica che può vantarsi di una mia certa costanza imprecisa.

Suvvia, non fare capricci: ti scrivo oggi ch’è un giorno speciale: te ne devi rallegrare!

Ho un sacco di colori per te, profumano di primavera.

È arrivata anche quest’anno, sai?

Sì, anche quest’anno. Dopo le dimissioni di Renzi che ha preso peso. Sarà che dorme meglio, o per compensare un ego un po’ sgonfiato. Dopo la cattivissima campagna pubblicitaria della Lorenzin sulle mancate procreazioni. Cattivissima non per il messaggio di fondo (no, per quello l’aggettivo giusto è “penosa”), ma perché secondo me i grafici che l’hanno ideata si sono divertiti un sacco a fargliela così come la conosciamo noi. Insomma, i cittadini ai politici qualche torto glielo devono pur fare, o no? E poi sì… non è proprio bella questa nuova stagione per il PD, ma anche per loro è il 21 di Marzo.

Anche oggi la Primavera è scesa come petali leggeri sulle teste dei disoccupati, dei giovani disperati, dei genitori che ogni giorno si dan forza, degli anziani che non possono fare la spesa e allora frugano tra la spazzatura, “ma buttar cibo non è reato, recuperarlo dai cassonetti invece sì” fa notare giustamente un tedesco proprio figo. (No, Houston, non uso “figo” per il suo cervello. Che ovviamente apprezzo un sacco.)

Si è posata, come una mano che protegge senza farsene accorgere, sui bambini che crescono diversi gli uni dagli altri, e non lo sanno che la felicità ha lo stesso suono, nel cuore, anche se non la stessa sostanza materiale. Lo scopriranno?

È arrivata a ricoprire le terre che germoglieranno in grano dorato e su cui magari qualcuno farà un picnic; sulle sponde di spiagge, di laghi, di fiumi; tra i cieli solcati dagli aerei e gli oceani tagliati dalle navi. Tra i pesci, tra le api, tra le speranze e le illusioni.

Ha portato qualcosa di nuovo alle delusioni, forse è una promessa, perché se l’Inverno ha saputo cambiar pelle, allora pure noi riusciremo a farlo, un giorno.

Sì, Houston, è arrivata anche sui prati dei camposanti, e perdonami se non mi soffermo, ma lo sai che se una lacrima rischia di tradirmi, io la truffo facendomi buffona. Tu non vuoi mica che faccia la buffona, no? Ecco, appunto.

Houston, abbiamo un problema. Ci si scorda sempre troppo da dove si arriva, di chi si è stati, della bellezza della gentilezza, della forza dell’onestà, della brutalità dell’intelligenza. Sì, non mi sto sbagliando: l’intelligenza è brutale per chi crede di giocarci, d’ingannarci, di tradirci. Di avere il potere di ferirci. Alla fine sai come andrà? Che si ferirà con le sue stesse parole, in coerenza con quel che sostiene: “L’Universo ti restituirà tutto”. Ecco, le persone intelligenti sanno essere brutali: perché insieme a quel tutto, gli danno pure il resto, a questi truffatori. Che è una lezione di vita che non impareranno mai. Sì, Houston, la gente immatura continua tutt’oggi a non crescere. Così come i denti che spuntano nuovi ai bimbetti fanno un male cane. Solo che questi non se lo possono risparmiare, il dolore di diventar grandi; quegli altri invece sì. E si raggirano.

Houston, ma vedi che mi distrai? Quante domande che mi fai! Abbiamo tutti questi problemi, come ieri che era Inverno, anche oggi ch’è Primavera. Non posso dirti da quaggiù che li risolveremo, non posso garantirti che un futuro ti contatterò dicendoti anche io la frase originale storica che poi ti ha reso celebre seppur tradotta male. Insomma, non so se ti dirò “Abbiamo avuto un problema”, sottintendendo “ma ora è tutto risolto”. L’umanità non si risolverà mai. Manchiamo di rispetto e gentilezza, di onestà e lealtà, di schiettezza. Tutte cose che fanno rima con “freschezza”, ma anche questa Primavera soffierà leggera su panorami e paesaggi senza vedere il cambiamento che il mondo e i bambini meritano.

Non sono pessimista: è che lo tengo un poco per me, questo sogno che cullo in gran segreto. Così, magari… chissà, si avvera.

Però, Houston, non tutto è perduto.

E siccome di questo io son sicura, ho voluto cercare, nei giorni passati, per portarti la dimostrazione che è così. Non tutto è perduto. La poesia, per esempio.

Qualcuna nuova l’ho scritta, sì. Più d’una. Ma io non te ne donerò alcuna.

Nemmeno di altri, no. Ci avevo pensato, a esser sincera. Io volevo giungere a te con un mazzetto di fiori raccolti strada facendo, come quando ero bambina e da sola andavo all’asilo, non troppo distante da casa, e mia madre mi scrutava dalla finestra, e non lo so cosa pensava di me mentre io allungavo il braccio e strappavo via quelle macchie di colore dal verde cui appartenevano. Sì, me ne andavo in giro da sola, ma mica dai miei cinque anni! Ne avevo tre, la prima volta che me ne sono andata col mio triciclo. Poi sono arrivati i quattordici: in bici per la campagna, raggiungendo una mia amica, e mia madre non lo sapeva se fossi arrivata o no, allora i cellulari nemmeno potevamo sognarli!

Com’era bello il mondo, il mio paese: i bambini per strada coi palloni contro il portale della Cattedrale, piazza Castello abbacinata dal sole e vivace di grida e pallonate. Niente suonerie.

Houston, ecco: sai qual è il problema più grande? La tecnologia.

Anzi no: non è la tecnologia. Siamo noi: perché lei non ha colpa se, pur mettendo a nostra disposizione mille canali, noi non siamo capaci di far partire la telefonata o il messaggio che dovremmo, chiedere “scusa”, “come stai?”, “parliamo e ci chiariamo?”. Le strade sono mille, ma noi sappiamo solo perderci. E non da coraggiosi: no, da vigliacchi.

Houston, abbiamo un problema: l’Inverno è cambiato, s’è trasformato. Ha deciso di togliersi di dosso i vecchi panni , anche se s’era affezionato, anche se gli è costato fatica, e adesso noi lo chiamiamo Primavera. PRIMAVERA. Senti già la poesia del gelsomino, Hou’, senti, senti!

…e noi, Houston, saremo mai capaci di cambiare pelle, spogliarci delle parole dietro cui ci trinceriamo, farci nuovi, farci veri?

Houston, oggi avrei voluto portarti poesie: nuove, vecchie, mie, d’altri. D’altri soprattutto. Le ho cercate, sai? Ma poi mi son chiesta: basteranno mille o una sola poesia per alleviare tutto quello che ancora ci fa soffrire, per cancellare quello che purtroppo ricordiamo, per colmare il vuoto che sempre ci porteremo dentro?

Ho risposto. Perdonami se le mie mani sono scarne e disadorne.

Una poesia a volte non basta. È allora che ci vuole più fantasia.

E se nemmeno quella, allora il silenzio.

 

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Intervista a Paquito Catanzaro, autore di Quattro tre tre

Ormai manca poco perché il nuovo libro di Paquito Catanzaro, napoletano classe 1981, arrivi in libreria, dopo il successo del suo Quattro tre tre e di molte altre opere precedenti.

Simpatico, attento, intelligente e dinamico, l’autore Catanzaro possiede quelle caratteristiche proprie di chi scrive: la consapevolezza dei molteplici punti di vista sulla stessa realtà, l’ironia e la poesia che sempre convivono insieme. Tutto questo si ritrova nel suo libro, di cui oggi vi parlo. Ma anche nella sua biografia sulla quarta di copertina:

Paquito Catanzaro è nato a Torre del Greco nel 1981. Dopo aver vanamente provato a diventare un supereroe, ha scelto la professione di attore per realizzare il sogno di raccontare a voce alta storie, fiabe, aneddoti o fatti strani. Ha fondato nel 2011 la compagnia teatrale Parole Alate con la quale ha portato in scena numerosi spettacoli in veste di attore e regista. Ha partecipato alle antologie Storie di ordinaria residenza (Homo Scrivens 2013), Dei trenta e più modi di perdere l’ombrello (Homo Scrivens 2014) e al romanzo Forza Napoli! di Aldo Putignano (Giulio Perrone 2013). Vorrebbe completare la sua nota biografica con una frase a effetto, ma in questo momento proprio non gli viene in mente nulla.

 

QUATTRO TRE TRE è un titolo evocativo: subito pensiamo alla formazione in campo, già immaginiamo di leggere tra le pagine di primi tempi, falli, calci di rigore, arbitri che fischiano, allenatori che imprecano, tifosi che istigano e incoraggiano. Invece no.  Quattro tre tre ci dice solo che incontreremo quattro difensori, quattro centrocampisti, tre attaccanti. Non ci dice nulla però di quello che realmente la lettura ci rivelerà: storie di vita vera di colossi del calcio passati alla storia. Più quella di un allenatore e di un ragazzo che, col suo sogno, scandirà il primo tempo, l’intervallo e i minuti di recupero. Perché nella vita c’è sempre un tempo per recuperare.

Ho incontrato l’autore – alto, sorriso cordiale e accogliente, la parlata di chi non ti risparmierà nulla e la gentilezza nello sguardo – e insieme abbiamo parlato di questo libro che sa sorprendere e affascinare davvero.

Nel libro ogni racconto ci rivela aneddoti di calciatori importanti che hanno davvero fatto la storia delle squadre italiane, a partire dagli anni ’90. Pierluigi Pizzaballa, Javier Zanetti, Paolo Cannavaro, Diego Armando Maradona, David Pizarro sono solo alcuni di essi. Aneddoti minuziosi, generosamente regalati attraverso la tua opera a chi non conosce nulla di questi campioni. Quasi un libro di calcio che non parla di calcio: perché a parlare sono i calciatori stessi che ci portano nelle loro vite, per farci scoprire com’è, questa dimensione “speciale”, a piedi quasi nudi.  Come sei venuto a conoscenza di tutti questi piccoli segreti?

P.C. Fondamentalmente è stato mio padre a raccontarmeli. C’è un rituale, dietro ogni aneddoto: io, mio padre Antonio e il caffè fumante di prima mattina. Il caffè è stato il vero complice  di tanti momenti solo nostri, lui narrava e io ascoltavo rapito. Mio padre mi raccontava di quelli che erano i suoi idoli di calcio da ragazzo. Pur di ascoltare i suoi racconti, sono diventato caffeinomane! È stato lui la mia principale fonte di ispirazione. Per alcuni protagonisti, però, ho dovuto documentarmi diversamente, e lì c’è da ringraziare la mia grande curiosità e chi ha voluto assecondarla.

Il tuo libro ha una struttura particolare interna: c’è un racconto che fa da cornice, diviso in tre parti differenti e che fondamentalmente apre e chiude l’opera. Nel mezzo, ogni giocatore è la voce narrante di sé. Qualcuno parla dei suoi successi, qualcuno dei propri fallimenti, qualcuno di cosa ha significato raggiungere il traguardo di giocare in una squadra di serie A che poi è diventata nuovo punto di partenza. Come nasce l’idea di strutturare in questo modo il libro?

P.C. L’idea di partenza è stata quella di creare una sorta di album figurine letterario. Le immagini adesive sono state sostituite con dei ritratti letterari di momenti particolari, anche insoliti e fuori dal campo. Qualcuno che va dal barbiere, qualcuno che riceve una strana intervista. Vite di persone speciali che s’incrociano con le altrui quotidianità.

Vite di persone speciali che s’incrociano con le altrui quotidianità. Maradona si confessa: “Ti volterò le spalle anche stavolta. A occhi bassi, per vederti nel chiaroscuro di un tramonto. Lasciando che il vento porti via con sé queste parole, insieme a una nuvola di polvere. Ma ti prego, volgi lo sguardo altrove di fronte a queste mie parole e trattieni le lacrime, così che possa andare via senza fare troppo rumore. Lasciando indelebile il mio nome nella tua anima. Magari ci si rincontra, mia adorata Napoli”.  Qual è stato il fattore determinante che ti ha portato alla scelta dei calciatori di cui raccontare e dell’allenatore?

P.C. Ogni personaggio che si racconta nel mio libro è un calciatore comparso almeno una volta sull’album della Panini. Zeman è stato un allenatore di inizio anni ’90. L’ho sempre ammirato per essere stato un vero rivoluzionario: è stato lui a “importare” in Italia questo modulo, il quattro-tre-tre, che dispone in campo quattro difensori, tre centrocampisti e tre attaccanti. Pizzaballa apre la carrellata di voci perché è l’unico di cui la Panini non ha mai pubblicato la figurina per la raccolta. Non era in campo quando è arrivato il fotografo per ritrarre i calciatori della sua squadra. Successivamente, per i collezionisti, la fotografia è stata recuperata e la figurina stampata, ma ovviamente a tiratura limitata. Praticamente era introvabile, i bambini erano disposti a scambiare di tutto pur di averla e completare gli album, che invece conservano quel vuoto. Tutt’oggi Pizzaballa è rara più di Joe di Maggio.

“Quattro-tre-tre” però non è il tuo primo lavoro letterario. Raccontaci di te.

P.C. Ho esordito con racconti pubblicati su diverse antologie di Scout, la collana della casa editrice Homo Scrivens sempre attenta alle nuove firme. Ho pubblicato anche altri romanzi e racconti. (Vedi nota biografica) Poi ci sono gli spettacoli teatrali.

Parlare di calcio ti ha sempre entusiasmato.

P.C. Sì, decisamente. Prima del libro c’è stato uno spettacolo, portato in scena in diversi teatri: “Perché in fondo Pizzaballa vale più di Maradona”, sempre ispirato alla mitica figurina introvabile.

Il teatro, veniamo a questo capitolo. Perché tu, oltre a scrivere, reciti. Una domanda sembra quasi obbligata: ti senti più uno scrittore o ti definisci un attore?

P.C. Io dico che lunedì, mercoledì e venerdì sono un attore che scrive; martedì, giovedì e sabato, invece, uno scrittore che recita.

Quasi molteplici personalità che convivono in un unico essere, direi, considerato che ogni scrittore e ogni attore sono, in una certa misura, anche i personaggi a cui danno voce. Da grande cosa vuoi fare?

P.C. Voglio continuare a fare tutto questo, magari con una busta paga fissa a fine mese.

Chi è Dante, il protagonista di cui racconti in Quattro tre tre? In qualche modo ti rappresenta, ha connotazioni biografiche o autobiografiche?

P.C. Dante mi rappresenta molto come ragazzo, perché dal punti di vista caratteriale è un sognatore, fa della necessità di gavetta un punto di forza. Non recrimina, non si lamenta. Si rimbocca sempre le maniche, non si dà mai per vinto. È una sorta di me proiettato in chiave calcistica con tutti i sacrifici che faccio.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

P.C. Tra la fine di febbraio e l’inizio della primavera arriverà in libreria il nuovo romanzo. “Centomila copie vendute” è il titolo.

 

E noi speriamo che ne venda almeno centocinquantamila.

 

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Parole per l’anno che verrà – parte seconda

 

 

Ho fatto un po’ di valutazioni: le parole che spesso dimentichiamo di mettere in pratica in modo autentico davvero, nella nostra quotidianità (sì, dovremmo usarle e realizzarle ogni singolo giorno), sono davvero tante.

Dopo il verbo Amare, riferito a una relazione di coppia, quindi, ecco le altre che vi auguro: altri verbi, per sottolineare che è importante lavorare sodo se si vogliono relazioni autentiche ed essere persone di valore, e anche sostantivi. Insieme all’amore inteso come forza motivante e collante autentico da mettere in pratica con i vostri affetti più veri e anche con gli sconosciuti. Perché vi dico “anche con gli sconosciuti”? Lo scoprirete leggendo.

 

Ribadisco: vi auguro che questi verbi soprattutto siano declinati ogni giorno nelle vostre esistenze, tramite le vostre azioni concrete. Ricordate: le parole, da sole, non fanno un bel niente, non dimostrano nulla, se non che ne avete conoscenza e padronanza linguistica. Per cui, come scrittrice e come educatrice, vi dico: le parole sono importanti, possono aprire mondi e possibilità, possono generare sentimenti, rinsaldare rapporti o farli interrompere, creare nuove realtà. Siate ben attenti a quello che dite, a quello che promettete, e siate coerenti; occorre essere capaci di tener fede alle parole pronunciate, che significhino promesse o impegni, ed essere concreti. A parlare sono bravi tutti: la volete fare davvero questa differenza o no? Datevi una mossa, crescete, riflettete, misurate, agite! E siate cauti. Perché, come diceva la mia professoressa di lettere e latino a liceo, “Parole poco pensate portano pena”. Non solo per gli altri, ma anche per voi: perché gli altri non sono scemi e vi posson dare il benservito sempre, senza possibilità di replica. E quindi: non vi giocate male le possibilità che l’altro vi offre, non tradite la sua fiducia, non bruciatevi.

 

PAROLE PER L’ANNO CHE VERRÀ

VERBI

sognare            viaggiare 

imparare           realizzare

rischiare          cercare

perseverare         valorizzare

incoraggiare

 

SOGNARE. Il sogno: quello a occhi aperti che non fa male, restando sempre coi piedi per terra ma al tempo stesso dispiegando le ali per REALIZZARE nuovi progetti. Professionali, personali, di squadra; a lavoro, in famiglia, con gli amici; con i vostri compagni di vita, mariti, mogli, figli.

IMPARARE. Vi auguro di imparare sempre, perché solo così conoscerete meglio voi stessi e scoprirete di amare ciò che prima ignoravate, solo così scoprirete i vostri limiti e vi metterete alla prova. Sfidatevi, non date nulla per scontato, datevi la possibilità di giudicare con cognizione di causa, non di essere mossi dal pregiudizio. Imparate nuove lingue, nuove attività, nuovi mestieri, nuovi voi stessi: sì, imparate a cambiare pelle, a superarvi, a non ripetervi sempre uguali.

Imparare, poi, è un verbo che a me piace tantissimo perché apre la porta a molti altri: a MERITARE, per esempio, a CURARE, CURARSI, AIUTARE, GUADAGNARE, RISPARMIARE.

REALIZZARE. Realizzate i vostri progetti, i vostri sogni, i vostri desideri. Dalla passeggiata in riva la mare anche se è inverno, alla dieta e alla palestra rimandata da tempo. Dalla mostra dei vostri dipinti o delle vostre foto, all’organizzazione del libro nel cassetto. Dal riordino dei vostri spazi, al cambio di look che vi piace ma non siete sicuri possa davvero essere quello giusto. Non rimandate: la Vita è adesso!

RISCHIARE. Se sono cose belle, se non nuocciono a nessuno, se è esattamente quello che più temete, rischiate rischiate rischiate! Mandate il messaggio che volete inviare ma esitate, azzardate l’abbraccio o la carezza che frenate dentro i pugni, scrivetele le lettere, fatele le telefonate, consegnateli i regali che avete comprato e mai dato ai destinatari delle vostre attenzioni! Mettete da parte l’imbarazzo, l’insicurezza, le perplessità. Cosa avete da perdere? Se il risultato non sarà quello che speravate, sarà comunque valsa la pena: perché non avrete rimpianti. No, non avete nulla da perdere, solo da guadagnare, nel bene e nel male.

CERCARE. Cercate sempre, senza sosta, non impigritevi, non annoiatevi, non scoraggiatevi, non demordete. Non accontentatevi. Cercate sempre la soluzione migliore, la condizione migliore, la persona giusta per voi. Cercate sempre di migliorare voi stessi, l’ambiente in cui vivete, la relazione col vostro partner. Cercate sempre il lato positivo delle cose. Cercate di vivere appieno e fino in fondo le vostre emozioni, i vostri stati d’animo: non temete mai la tristezza, la malinconia, la delusione, la rabbia, il rammarico. Passeranno, col tempo. Ci vorrà pazienza, ma se ne andranno, se li vivrete davvero. Ogni nostro stato d’animo spiacevole non va soffocato o represso perché negati dalla nostra società. Non possiamo diventare davvero più forti se neghiamo le tempeste. Fanno parte della Vita. E poi cercate il punto d’incontro, il confronto, la messa in discussione, l’antitesi, la risposta, il perdono, la riconciliazione, la melodia giusta, il libro giusto al momento giusto. Cercate sempre di tentare ancora, di non tirarvi indietro, di mettere da parte l’orgoglio.

PERSEVERARE. Oltre a cercare, sì, perseverate. Siate decisi, agite con costanza, dimostrate fermezza e coerenza. Però non perseverate negli errori: imparate a riconoscerli, e miglioratevi subito rispetto a essi se dipendono da voi, dal vostro carattere, dalla vostra pigrizia, dalla vostra incapacità. Oppure migliorate il tiro se dipendono da fattori esterni. Non perseverate però in relazioni sbagliate o nelle situazioni ambigue. Imparate a riconoscerle e operate criticità. Imparate a salvarvi, laddove potete. Che sia da una storta per aver corso su terreni non stabili o da pericoli gravi e seri.

VALORIZZARE. Date valore. Valorizzate i vostri fallimenti, i vostri errori: perché solo così eviterete di fallire o sbagliare ancora. Valorizzate quel che avete: leggeteli, i libri che comprate; indossateli, i vestiti che lasciate spesso nell’armadio. Imparate a usare quel che avete. E poi, soprattutto, valorizzate le persone che vi circondano. Ripetete sempre a chi amate quanto sia importante per voi, e nel farlo non usiate solo le parole: regalate fiori, scrivete parole su cartoline, scarabocchiate disegni anche se non siete bravi, organizzate gite, e se non sono gite, anche semplici passeggiate; ricreate dei momenti solo per voi: non è importante la cena al ristorante, ma lo spazio e il tempo curati esclusivamente per condividerli con chi amate. Non aspettiate che l’altro vi manchi per chiedere “Passiamo del tempo insieme?”; no: curate e condividete con chi amate il tempo che potete, quando potete. E poi: valorizzate voi stessi. Questo significherà anche tagliare quelle relazioni in cui siete dati per scontati, messi all’angolo, o peggio: in cui siete offesi, in cui soffrite. Non sempre si può, lo so. Nel lavoro, per esempio, non è facile. Ma almeno in pseudo-amori o pseudo-amicizie, fatelo! Inutile che vi dica che dovete valorizzare i vostri talenti, le vostre capacità e competenze, le vostre caratteristiche migliori (lavorando sui vostri difetti) per aumentare la vostra autostima e divenire così capaci di tagliare i ponti con chi non vuole davvero il vostro bene, con chi dice di amarvi ma poi è centrato solo su di sé. Io, per esempio, ho iniziato a tirar fuori la mia passione per la scrittura e a pubblicare articoli, racconti e romanzi quando ho detto basta a una relazione troppo sbilanciata. Siamo nati per essere felici, non per costringerci all’infelicità.

E poi…

INCORAGGIARE.

Incoraggiate voi stessi, gli altri, i bambini, i ragazzi che crescono, i vostri genitori, i vostri figli, i vostri insegnanti, i vostri alunni, i vostri amici, i vostri colleghi e anche il capo che vi sta sulle scatole. Lo sconosciuto che siede di fronte a voi sul vagone del treno, la ragazza che incrociate per strada mentre piange. Chi ha perso tutto, chi è ambizioso, chi prega per gli altri, chi s’impegna, chi vuol gettare la spugna. Incoraggiare significa anche ascoltare: ecco, fermatevi un attimo e ascoltate. Vedrete che in qualche modo, nella frenesia di ogni giorno, vi riconcilierete col mondo e con una parte di voi stessi che probabilmente state trascurando.

Per me scrivere significa raggiungere gente sconosciuta e incoraggiarla, farle capire in qualche modo che non deve sentirsi sola, perché non lo è.

La cosa più bella che mi sia capitata all’inizio della mia vita a Milano, più bella e più inaspettata, è questa, ve la racconto.

Poco più di un anno fa, a Vigevano salivo sul treno per raggiungere Milano, in un sabato mattina in cui avrei dovuto incontrare i miei amici pugliesi. Parlavo al telefono, era un momento difficile. A un certo punto, mentre ero già sul vagone, individuato un posto libero, chiedo: “Come sta?”. Io chiedevo come stesse una cagnolina di nome Maya al suo proprietario, dall’altra parte del telefono. Una voce esterna, però, mi ha risposto con tono meravigliato: “Sto bene, grazie”. Era il passeggero seduto sulla poltrona di fronte a quella su cui mi stavo accomodando. Mi sono scusata, ho spiegato che non era rivolta a lui la domanda perché parlavo al telefono con gli auricolari ma che ero comunque contenta di sapere che stesse bene. Quando ho chiuso la telefonata, nonostante la mia faccia triste e qualche lacrima che solcava le guance, lui si è fatto coraggio e mi ha chiesto: “E lei, come sta?”. Quell’uomo, per me sconosciuto sino a quella mattina, mi ha incoraggiata tanto in un momento difficile davvero. Arrivati a Milano, mi ha proposto di scambiarci i numeri, “Così”, ha detto “quando ti vien voglia di scrivere a lui, manderai un saluto a me e io ti parlerò della Spagna, dei miei viaggi, e tu affronterai il distacco un po’ meglio, riuscirai a voltare pagina. Vedrai”. Quell’uomo, che ho scoperto poi essere un pilota dell’Alitalia, è diventato mio amico. Quando pubblico qualcosa qui su questo blog, mi legge subito senza che nemmeno lo avvisi e mi dice quel che pensa, mi scrive su whatsapp. Anche per il mio lavoro di scrittura mi incoraggia. Ieri sera mi ha scritto parole bellissime in merito al mio precedente articolo, quello sul verbo Amare, e mi ha confidato che leggermi lo aiuta molto, in una certa misura lo incoraggia a guardare il suo passato e a rileggerlo in modo più consapevole.

(Sul treno si fanno incontri bellissimi, ve lo garantisco personalmente. Alle volte possono nascere anche poesie, o racconti che qualcuno pubblicherà da qualche parte, forse su altro sito internet, sotto occhi di milioni di persone.)

Se non fosse per questo pilota Alitalia sconosciuto poi divenuto mio caro amico, Milano sarebbe stata molto più dura e difficile da affrontare.

Quindi: incoraggiate, non tiratevi indietro mai. È il gesto più umano che possiate compiere e che, al tempo stesso, vi farà sentire davvero migliori. Perché in quel momento lo sarete davvero.

Non ci sono solo verbi, ma anche sostantivi che vi dedico e vi auguro per questo nuovo anno ormai alle porte. Non commenterò in alcun modo nessuno di essi: perché voglio che ognuno di voi vi rifletta spontaneamente, senza interferire né condizionarvi.

PAROLE PER L’ANNO CHE VERRÀ

SOSTANTIVI

coscienza    

incoscienza (q.b., il necessario per volare)

tenacia    coraggio   

delicatezza   forza

calma   serenità

felicità

pazienza  determinazione

serenità   sincerità

lealtà

critica   autocritica

realizzazione

reciprocità

 

 

La Vita è misteriosa e affascinante. A volte gioca tiri mancini che nemmeno immaginiamo, altre volte ci regala gioie immense.

Una persona che amavo tanto, occhi celesti come il cielo, sorriso radioso, mina vagante un po’ come tutte le altre donne della mia famiglia, era solita ripetere – e dire a me soprattutto – le parole di un grande Maestro:

Gioisci per quel che c’è da gioire,

soffri per quel che c’è da soffrire.

 

Di fronte a tutto quello che mi accade, io me le ripeto sempre, lascio che risuonino in me con la sua voce, e la sento meno lontana.

Oggi le regalo anche a voi, perché possano essere il mio incoraggiamento in qualsiasi vostro momento.

Il mio compito finisce qui, con la speranza che possiate donare e ricevere, sempre e incondizionatamente, con purezza e reciprocità d’intenti.

Buon 2017.

Luana

Parole per l’anno che verrà

Abbiamo tutti bisogno di parole: da ascoltare, da ripeterci, da ricordare e rammentarci.

Ma le parole non bastano: servono le azioni, i gesti, le attenzioni.

E sono talmente urgenti, tutte quante insieme, che servono a priori, perché solo a priori valgono, hanno effetto, salvano.

Se il presente è un dono, non c’è da rimandare: è la Vita stessa che richiede l’urgenza. Hic et nunc: qui e ora, perché quello che rimandi potrebbe non aspettarti. Tutto cambia forma, anche se certe cose non cambiano mai. Anzi, non certe cose: le persone.

Cosa davvero ci richiede la Vita? Parole che auguro a voi, verbi soprattutto: perchè dobbiamo impegnarci, rimboccarci le maniche, darci una mossa.

 

 

PAROLE PER L’ANNO CHE VERRÀ

AMARE

(Melodia consigliata per accompagnare la lettura: Ludovico Einaudi – Melodia africana III )

 

 

Il presente ci chiede soprattutto di amare.

Amare.

Questo verbo infinito, tanto infinito da essere sconfinato, a volte smisurato, smodato, troppo astratto da divenire irraggiungibile, o troppo concreto da annientare, soffocare, sbagliare, confondersi.

Amare.

Questa parola inflazionata, a volte dimenticata in un angolo, ad aspettare. Come un’auto che sta lì, per strada sotto casa, coperta di polvere e di foglie, perché tanto se non sei tu a inserire e girare la chiave, pigiare il pedale, sei sicuro non camminerà mai senza di te. E se invece ti sbagliassi?

Amare.

Questo verbo che si fa sentimento ricco di emozioni, promesse, speranze, progetti. Qualche volta delusioni, rimpianti, rimorsi. Più facilmente baci, carezze, sospiri; ma non troppo difficilmente mani pesanti, lividi.

Accade anche che definiamo “Amare” azioni e parole che non nascono da amore: siamo carenti, linguisticamente; maciniamo massi grezzi sotto i denti illudendoci di trarne fuori pietre preziose.

(Ma l’amore è un’altra cosa, mi dico.)

Amare, in fondo, è anche aggettivo qualificativo femminile plurale: ecco, molto spesso confondiamo tra il verbo e l’aggettivo. Siamo ignoranti, spesso anche ciechi e ipocriti.

Amare (il verbo, quello autentico) fa rima con donare. Perché il dono è momento di condivisione e te ne infischi delle regole che ti sei imposto.

Fa rima con ascoltare, e mi riferisco all’ascolto dei silenzi soprattutto. E se sono parole, che servano per costruire ancora, ogni giorno cose nuove, custodendo quel che già è stato fatto. L’amore non deve richiederci il compito di Penelope, questo continuo tessere e disfare e ricominciare.

Amare riecheggia in evitare: evitare di ferire l’altro, di darlo per scontato, di commettere sempre gli stessi errori. Errori che poi hanno il nome di egoismo, egocentrismo, e accidenti quanto fanno male! Se ami, sei attento a non ferire l’altro.

Amare è complicità: cercarsi con lo sguardo tra mille volti e lì trovarsi, occhi puntati negli occhi, se non è proprio possibile aversi in un abbraccio, tra mille persone. Perché se ci siamo, non si è semplicemente delle persone tra tante altre persone. Un gesto, una carezza, un bacio lieve nella confusione. Gli amanti rubano tempo al tempo, nulla è loro di ostacolo, il NOI è saldo tra la folla che disgrega. Altrimenti forse no, non è amore. Allora è altro. E non è vero che la complicità con gli anni può esser data per scontata: o c’è e si vede, o non c’è, e allora uno cerca lo sguardo che mai s’incrocerà col suo.

Amare è entusiasmo: quello che ti tira fuori dal letto perché c’è da vivere insieme, da correre incontro, da guardarsi negli occhi, e nulla può frenarti, c’è l’urgenza, non puoi farci niente, perché altrimenti manca l’ossigeno, la nostalgia tende agguati, la mancanza t’invade. C’è da correre, velocemente, e velocemente non è abbastanza.

Amare è cogliere l’attimo, perché la bellezza è una poesia leggera che in ogni istante può sfumare. E’ per questo che per gli innamorati tutto passa in secondo piano.

Amare è attendere, anche. Ma di certo non è deludere le attese altrui, perché altrimenti chiediti: chi amo davvero? L’immagine solitaria nello specchio, quella catturata per strada da un obiettivo, o le due immagini che camminano affianco riflesse nelle vetrine per le strade?

Amare è buttar via le proprie scelte radicali, se ci sono momenti da celebrare. Alle volte basta una banalità piccola per rendere grandi gli attimi e i ricordi.

Un po’ come dire: non importa la sala, ma il film che vi si proietta; non importa la destra o la sinistra, ma l’unità d’intenti, i valori, i principi.

Non importano gli altri, ma conta prima di tutto l’altro. Il passato lo lasci lì dov’è senza nemmeno pensarci. Cosa conta: chi eri o chi sei? Cosa conti: quel che hai perso o quel che hai trovato?

L’amore altrove, dice qualcuno. Altrove dove?, dico io, se non qui, se non ora, se non adesso, se non noi, se non per il tempo che riusciamo a regalarci?

In amor vince chi fugge? In amore vince chi resta? No, in amore vince chi va incontro all’altro, reciprocamente. E se non c’è reciprocità, non ne vale la pena, fidatevi.

Si vuol bene, si fa del bene: gesti piccoli, gesti grandi, gesti giusti. Gesti sempre, perchè Amore non è fatto per scusarsi delle proprie mancanze o superficialità: amore è fatto per evitarle.

Alle volte però l’amore non è affatto tutto questo.

Alle volte, poi, si ama l’altro con una misura diversa da quella che si riceve. E l’amore, come l’entusiasmo, è una torta di cento fette, dove ogni delusione, ogni attesa vana, ogni momento rimandato, ogni momento lasciato lì ad aspettare ne mangiano alcune. E se l’altro non ricolma quel piatto, se ancora rimanda?

Arriva la tristezza, quella sì che pesa.

Come un sasso.

E noi – spesso non lo sappiamo –  siamo fortunati a inciampare in quel sasso.

Perchè…

 

 
Si cade, s’inciampa
tra i sogni e le speranze
tra quello che cercavi
quello che vuoi
quello che ti è negato.
 

É allora che ti svegli:

cadendo
le ginocchia sbucciate
sanguinano:
in un lampo ricordi
d’esser vivo
e sai:
felicità
ha un altro sapore
un altro ritmo
un altro cuore.
Piangere adesso:
le ginocchia sbucciate
le lacrime salate
le guariranno.
 (A tutte le mie amiche che in questo 2016 hanno scoperto il lato difficile davvero dell’amore. Luana)

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Una vita all’improvvisa, risposte nel vento

Bob Dylan ha ricevuto il Premio Nobel per la letteratura.
A me torna in mente una sera di marzo, aprile forse, di pochissimi anni fa lontani quanto decenni.
La pioggia leggera fuori, due sconosciuti, un impianto stereo che s’inceppava, facendo ripartire sempre la stessa canzone.
“The answer, my friend, is blowing in the wind”, sarà per questo che ancora oggi molte risposte mancano e la pioggia porta sempre a quei due rimasti lì, impigliati da qualche parte. Distanti nella vita reale, c’è chi non smette di pensar loro, forse spera che le domande siano soddisfatte un giorno, e allora si chiede come fare per dimenticare.
Forse “una vita all’improvvisa” è il miglior consiglio da adottare e praticare, in simili situazioni, come dicevano Franca Rame e Dario Fo. Che pensava non fosse per lui, quella donna da cui non riusciva a staccare gli occhi, da cui cercava di prendere le distanze, e invece poi ha avuto vicino persino nei sogni, oltre l’ultimo bacio di una vita insieme, sino all’ultima parola.