Marcela Serrano, Dieci donne

Alla fine, dice fra sé allontanandosi dalla finestra, alla fine tutte noi, in un modo o nell’altro, abbiamo la stessa storia da raccontare.

Si chiude con queste parole il romanzo Dieci donne, di Marcela Serrano.

Ambientato a Santiago del Cile, paese di nascita dell’autrice, narra di nove donne invitate dalla loro psicoterapeuta per conoscersi e raccontarsi. Anello di congiunzione per queste sconosciute è infatti Natasha, la loro psicoterapeuta.

Ognuna di loro ripercorrerà il proprio vissuto, “donandolo” alle altre e rivelando il motivo della propria psicanalisi. Anche Natasha farà loro dono di sé e della propria storia di vita, ma attraverso la voce di un’altra donna.

Non so quale fosse la sua intenzione nel riunirvi qui, oggi. Lei non mi dice mai cosa farà, pertanto non posso anticiparvi nulla. Voleva dirvi addio? Forse. Voleva che vi aiutaste l’un l’altra nel caso lei fosse mancata? È  probabile.

Quando  la decima voce, ovvero la sua assistente, pronuncia queste parole, le nove pazienti si sono già “sintonizzate”, messe in contatto rivelandosi, affrontando temi epici. Ognuna con la propria visione, o la propria interpretazione. Ognuna testimone del proprio mondo, universi che s’incontrano.

Marcela Serrano ci conduce così nei luoghi dell’essere donna, con tutte le sfaccettature dell’universo femminile, per farci scoprire che in fondo sono sempre gli stessi punti quelli su cui ci interroghiamo, per quanto le nostre esistenze, i nostri ruoli sociali, la nostra ideologia sociale, o i nostri ideali, le ideologie politiche, la formazione culturale e professionale possano essere diametralmente opposti. A dispetto del tempo e anche dell’emancipazione femminile.

Proprio per questo, il suo è un lungo racconto capace di metterci in contatto con quelle parti di noi accantonate, o dimenticate, o trascurate. L’autrice ci pone di fronte ai grandi capitoli su cui ci interroghiamo, anche inconsapevolmente: il senso dell’amare e dell’amore, il significato di un uomo nella nostra quotidianità e della sua presenza vera, il valore etico del lavoro e la sua vera valenza, il sesso, la maternità come sentire prima che come agire. Non ultimo, il senso dei legami. Tramite il coro di voci, la riflessione nel lettore (donna o uomo) prende vita, portandolo a interrogarsi e confrontarsi, sia col proprio vissuto sia con la pluralità della scena letteraria.

Pare sottolineare implicitamente, a mio avviso, la Serrano, che ogni donna indipendente è una donna davvero realizzata, a prescindere dalla realizzazione nella vita di coppia o nel lavoro. Componente di questa indipendenza è la solitudine, intesa come punto di forza e trampolino di lancio, mai come condizione di negazione di sé rispetto al mondo. Anzi: la solitudine come strumento per una piena e autentica appropriazione di sé e del mondo.

Il valore degli esseri umani sta nella loro capacità di separarsi dagli altri, di essere indipendenti, di appartenere a se stessi e non al branco.

Allo stesso tempo, però, pare sottolineare che indipendenti non significhi distintee-disgiunte dagli altri. Anzi, tramite le voci delle protagoniste, la Serrano ci ricorda che non potremmo mai vivere senza legami con gli altri, col nostro passato, con quelle che siamo state e con chi ci ha accompagnate nel processo di crescita e cambiamento. Ad accompagnare queste donne nel loro percorso fino all’incontro con Natasha ci sono stati uomini: i loro padri, i loro mariti, i loro amanti, i loro figli, o degli sconosciuti. Non sempre figure positive, anzi. Le protagoniste della Serrano raccontano delle violenze, dei soprusi, degli abbandoni, delle mancanze consapevolmente esercitate. Senza sentirsi né risultare vittime, ma eroine capaci di testimoniare la forza della rivincita.

Però, nonostante tutto, non posso dire di non essere stata felice. Sono stata pazza, coraggiosa e sfrenata e me la sono goduta alla grande. Se il mio destino era soffrire, allora quel cazzo di destino si è sbagliato ed è rimasto a bocca asciutta.

Sono donne che hanno spezzato le catene, anche se questo significa soffrire. Ma ogni sofferenza è un nuovo partorire, un nuovo rinascere, soprattutto quando quella sofferenza è vissuta attivamente. La psicoterapeuta lo sottolinea:

Da quel mollare gli ormeggi a volte nascono opere magnifiche.

Mollare gli ormeggi: prendere il largo e nuotare da sé in acque nuove. Sappiamo bene che quando si nuota verso il mare aperto, a tratti ci si volta sempre indietro, per toccare con lo sguardo la riva, il punto di partenza, dalla parte opposta dell’orizzonte inseguito. Proprio come quando, nella frenesia quotidiana, sospendiamo tutto per un attimo e guardiamo indietro nei nostri anni.

Il passato è un rifugio sicuro. Il passato è una costante tentazione. E tuttavia il futuro è l’unico posto dove possiamo andare.

Cosa conta, nell’esistenza di tutte queste donne? Cosa testimonia il racconto della loro vita, passando per traumi o malattie emotive che hanno determinato l’esigenza di un percorso psicoterapeutico?

I movimenti concreti della vita quotidiana – risponde Andrea, la grande donna d’affari e di successo con una meravigliosa famiglia e un marito che la ama, ma dalla rabbia indecifrabile che gli altri le dicono di avere sul volto, il motivo che l’ha condotta da Natasha. I movimenti concreti: gli unici che impediscono di fermarsi, arrendersi.

Che esercizio stiamo facendo Natasha? (…) È  questo che importa: i piccoli movimenti concreti della vita quotidiana. L’importante è che, quando lei – la vita – verrà a cercarmi, in qualunque posto io sia, non mi trovi sconfitta.

Nei movimenti concreti delle donne c’è il lavoro. Cosa è davvero il lavoro, per noi?

Come ci difendiamo con il lavoro! E come saremmo esposti alla nudità senza di lui!

Lavorare. È  la mia costante scusa per vivere. Ma adesso ero nel deserto per pensare, o per ricordare.

Il lavoro, la carriera, l’affermazione professionale: questo conta per alcune delle protagoniste. Tutte fanno quello che è nelle proprie corde, nelle proprie possibilità. Quelle già in pensione ascoltano le più giovani. Tutte sono sbocciate in modo diverso, ognuna in base alle proprie potenzialità, ai propri talenti. E il talento cos’è? A rispondere sempre Andrea, la grande donna manager di sé stessa:

Il talento è un titolo di responsabilità.

Nessuno può negarlo: riconoscere il proprio talento comporta doveri, e rispondere ai propri doveri richiama il senso di responsabilità.

Indubbiamente ci vuol talento anche nel ri-conoscersi per quello che si è, anche nell’ammettere i propri limiti. Insomma, ci vuole talento nell’accettarsi e amarsi “a prescindere”.

Ma cos’è che ci permette di raggiungere questo amore per sé che di certo non è un paradiso, il più delle volte? Un viaggio: un viaggio dentro di sé, con se stesse, per se stesse.

Qualcuna si cerca in mille luoghi diversi, e alla fine trova sempre la propria inquietudine.

Viaggio con curiosità. Con la speranza di trovare serenità da qualche parte.

Arrivo in un posto per andarmene, non per restarci.

Altre, invece, hanno compreso il segreto: il viaggio vero è guardarsi dentro, alleggerire il carico, eliminare il superfluo. Avere un cuore più umano, più materno forse, anche con se stesse.

Delle nove pazienti-protagoniste, alcune sono separate, altre sposate, altre in cerca del proprio uomo, altre si chiedono “dove siano, questi uomini”. Una di loro ha perso per sempre il suo grande amore: il suo marito e padre dei suoi figli, e lo aspetta. Da anni. Racconta così la mancanza dell’unico uomo che desidera:

Avevo voglia di abbracciarlo. E avevo voglia di tutte quelle cose che non si dicono. (…) Sapete cos’è che ammazza? Il silenzio. È questo che ti ammazza. (…) Dove sei, amore mio? Dove sei che non mi senti? (…) Certi giorni mi sembra di sentire il Carlos. Tu che cosa hai fatto, Luisa? mi chiede. Ho aspettato, rispondo. Ti ho aspettato tutti i giorni. Non pensavo che una cosa simile potesse succedere, caro. (…) Non muore nessuno per non avere un uomo. Però sono stanca. Sono stanca. Molto stanca.

Cos’è un marito? – ci si chiede allora. Due differenti accezioni emergono: agli antipodi, ovviamente. Eppure, pur non essendo sposata, sono sicura di non sbagliare quando credo che in ogni donna queste due accezioni coesistano contemporaneamente e pacificamente.

Un marito è un luogo. Un luogo di solidità. E di purezza anche, se una s’impegna.

…per altre non è proprio così, piuttosto è un luogo scomodo. Del resto, come dar loro torto? Certi mariti non sono uomini, ma maschietti, bambini cresciuti, per cui le donne non sono che delle mamme, se non delle badanti:

E quando rimasi sola cominciai a provare un enorme sollievo. Mai più una partita di calcio alla tele. mai più un uomo sdraiato sul letto con il telecomando in mano e lo sguardo perso. Mai più il ronzio di sottofondo della televisione perennemente accesa. Mai più i tappi nelle orecchie per potersi addormentare. Mai più cercarsi un posto dove andare a leggere un libro perché in camera tua non è  possibile. Mai più fare a gara con la sua squadra del cuore per aggiudicarsi un attimo di attenzione.

Però la risposta che più condivido è quella di Andrea (sempre lei, la più realizzata): perché la nostra indipendenza, senza una zona franca di intimità e condivisione essenziale, è incompleta. Non si cresce senza confronto; ed è bello crescere e cambiare confrontandosi con un punto fermo diverso da noi: un uomo presente davvero nelle nostre esistenze, anche nelle nostre indipendenze: un marito – io credo.

Andrea marito 1

Andrea marito 2

 

Chi invece un marito non ce l’ha e nemmeno lo cerca, lo dichiara così:

Se avere un uomo è un fatto di prestigio, un di più che ti porti dietro, un cappotto di buon taglio  che cade elegantemente e non importa se tiene caldo, io preferisco avere freddo.

… ma avere un uomo nella propria vita, decidere di averlo e sceglierlo – secondo me – anche questo è un viaggio, un lavoro, un talento. Un rischio, anche. E si sa che…

Senza rischiare non vai da nessuna parte.

Una che un uomo proprio non lo cerca è Lupe, la più giovane del gruppo, adolescente e omosessuale. Ripercorrendo tutte le tappe che l’hanno condotta alla conoscenza della propria identità sessuale e al coming-out, con quegli adulti impiccioni e incapaci di confidare nelle giovani generazioni, mi ha fatto sorridere quando ha riportato il dialogo con suo padre, nel giorno in cui ha dovuto dichiarare ai genitori la propria omosessualità:

Lupe e suo padre

Qualcuna di loro si lamenta delle altre femmine insipide, qualcun’altra precisa la sottile differenza tra sentimenti e sentimentalismi; un’altra, poi, riporta le parole di una sua amica che al sesso ha definitivamente rinunciato.

Mi fanno ridere certe fighette che si lamentano sempre, si lamentano di ogni cosa, di tutto e per tutto, quelle teste di cavolo.

La sorella di Jennifer, che si chiama Doris ed è di poco più anziana di me. Mi ha detto: a me là sotto si è chiuso tutto, le grandi e le piccole labbra mi sono salite su per la schiena e adesso ho un bel paio d’ali!

Non mancano i temi della morte, della difficoltà nell’amare un figlio frutto di una violenza, della grande fatica emotiva e fisica di essere responsabili del destino di questi figli. Non manca la donna cresciuta in una famiglia molto benestante ed ereditiera di un patrimonio che le consente di scrivere e vivere come vuole. Ed è, questa protagonista, una tosta che la pensa come me sul femminismo:

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Si ride, a tratti, con questo libro, e si riflette, passando per quello che più fa male. “Eh, mon chérie, c’est la vie! Eh, miei cari, é la vita!”, come dice lo scrittore protagonista del mio secondo romanzo.

 Comunque se Dio ha dotato la gente di un po’ d’elasticità, se la sono accaparrata le donne.Per gli uomini non è rimasta. Non cambiano. Solo con il Prozac, se riesci a farglielo prendere.

Lo guardai allontanarsi e pensai com’è spaventoso vedere un uomo lucido e intelligente che diventa un idiota nel giro di un secondo.

 

Il lungo pomeriggio delle vicende del romanzo finisce. Dietro i vetri di una finestra c’è Natasha. Le ha salutate una per una, a un tratto è comparsa per regalare a ognuna delle nuove parole, bisbigliate in segreto nei loro orecchi, almeno così dice furtivamente la Serrano. Le guarda attraversare il viale dell’ospedale che ospita il suo studio per risalire sul pulmino che le riporterà a casa.

Se le immagina mentre camminano lontano da lei con un passo più lieve, sotto le stelle: non quelle che conoscono ma quelle che stanno nascendo, originate dalla morte delle altre.

Sono guarite? – vi chiederete e vi chiedo, sorridendo e avvertendo già nostalgia per tutte loro.

Come ho scoperto questo meraviglioso romanzo? Ero in Salento, arrivata senza libri per mia volontà. Perché volevo staccare la spina: niente libri e niente taccuini su cui scrivere. Mi sono annoiata dopo tre giorni e così son corsa in libreria. “Dieci donne” era l’unica trama che mi affascinasse tra i titoli disponibili, benché la grafica di copertina me ne allontanasse (sono esteta assai, pure con le copertine dei libri). L’ho letto tra diversi paesi salentini e durante i miei giri nelle Marche, interrompendone a un tratto la lettura per dedicarmi alle opere di due autori che ho presentato all’evento letterario annuale “Libri nel Borgo Antico” di Bisceglie, che mi ha sempre ospitato come autrice ma che quest’anno mi ha voluta come conduttrice del dialogo su altre opere.

In quella pausa forzata, le protagoniste della Serrano mi mancavano.

Grazie alle donne create (o prese in prestito dalla vita reale?) dall’autrice, ho realizzato così una grande verità. In realtà già viveva in me, anche se sedimentata sotto strati e strati di pensieri e considerazioni.  Le donne consapevoli di sé e della propria storia sono donne salve: questo mi è divenuto chiaro leggendo “Dieci donne”, lavoro scritto bene e talmente intenso da strapparmi più di una lacrima e un pianto vero e proprio. Quando un uomo ha detto a una donna “…facciamo un atto di tenerezza”. A dirlo era un uomo che invitava la sua donna a portare avanti una gravidanza non programmata né desiderata, consapevole del fatto che ad accogliere quella nuova vita fosse il corpo di lei. E quella lei era lei, Natasha.

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Ad ogni donna, così come ad ogni uomo che mi sta leggendo, vorrei sottolineare queste parole, pronunciate da una protagonista madre di due ragazze, anche se possono risultare banali:

L’unica condizione perché una vita come la mia possa funzionare è star bene con se stesse. Confidare in sé. Senza risorse interiori, non c’è niente da fare.(…) La solitudine non è mai sostanziale. È relativa, perché le presenze che mi accompagnano sono di una solidità impressionante. Lo sono davvero. Quindi concludo che questo è l’amore, né più né meno. La forza di queste presenze. Quegli adorabili fantasmi con i quali prendi il tè o bevi un bicchiere verso sera.

Le sottolineo perché io, fondamentalmente, non credo che siamo isole incapaci di creare ponti durevoli verso altre isole. Certo, sono poche le isole con cui possiamo formare meravigliosi arcipelaghi capaci di resistere alle intemperie del tempo, però non per questo dobbiamo rassegnarci o desistere. E di fronte alla fragilità umana, alle nostre debolezze e alle differenze che spesso ci allontanano dall’altro, dobbiamo ricordarci le parole di una delle tante voci che si narrano:

Abbiamo (tutti) la stessa vocazione per la felicità.

Chi è Natasha e perché non compare a raccontarsi tra le sue pazienti in prima persona? Dovete leggere il libro per scoprirlo, io non vi rivelerò nulla, come mia abitudine per le parti più belle dei libri che decido di condividere con voi. Posso solo dirvi che la sua storia è bellissima, s’intreccia con altre vite, affonda le radici nell’esistenza di altre persone, ed è fatta di amore – “perché l’amore salva”, dice qualcuno. Solo una frase vi riporto, per farla entrare nel vostro cuore e indurvi a desiderare di “incontrarla”:

Non fate rumore intorno a lei, perché è alla ricerca del silenzio.

 

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– Cosa fai di bello? – mi chiede lui dall’altro capo del telefono. Mi ha telefonato tramite Whatsapp, è a Dubai. Sempre lui, l’uomo del mistero che nessuno conosce, sì.

– Sto finendo di recensire un libro.

– Quale?

– Dieci donne, di Marcela Serrano. Un’autrice sudamericana.

– Ah, bravissima, la conosco! Fai così: scrivi questa citazione: quattro puntini…

– Veramente i punti di sospensione sono tre.

– …va bene. Tre puntini, apri le virgolette… – e conclude il suo suggerimento.

– Aspetta, lo scrivo direttamente ora che me lo dici, sono col computer alla mano. E guarda che chiudo il mio pezzo con la tua citazione, eh.

– Domani voglio vedere! Io ho amato tanto il Brasile, te l’ho già detto. E poi come un c******e ho accettato il trasferimento.

Gli uomini intelligenti parlano alle donne senza troppi giri di parole. Sanno scherzare con loro, ridere, parlare, ascoltarle, comprenderle autenticamente. Le stimano, e sono consapevoli del loro valore. Né hanno resistenza alcuna nell’ammetterlo a gran voce.

Gli uomini così sanno far provare alle donne quella sensazione dolcissima che in portoghese brasiliano si dice:   … “saudade” …

 


 

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Testi virgolettati e foto dei brani: tratti da “Dieci donne”, Marcela Serrano, Feltrinelli

Testo: Luana Lamparelli

Luana Lamparelli

 

IL MESTIERE DI SCRIVERE

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Quanto sopra riportato lo dichiara Ermanno Cavazzoni, a proposito della letteratura.
Non posso che ritrovarmi nelle sue parole e, inevitabilmente, aggiungere il mio pensiero. Che è strettamente soggettivo, altamente personale e discutibile, che è questo.
Scrivere è un mestiere così bello: bisogna avere occhi e ali, piedi per terra e testa tra le nuvole, testa sulle spalle e gambe per correre lontano. Scrivere è un mestiere che ti chiede di essere architetto e ingegnere insieme, avvocato e criminale o pregiudicato o imputato o indagato o innocente in un unico tempo; richiede cinismo e sensibilità, passione e razionalità. Potrei continuare all’infinito, ma mi fermo affermando l’unica verità – per me – assoluta: scrivere è un non-mestiere, deve essere tuo come lo sono la fame, la sete, il sonno, il respiro. Altrimenti è uno sforzo a cui vi costringete inutilmente. 

 

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L’unica donna sulla Terra

“Diario di una lettrice” è lo spazio in cui fondamentalmente voglio scrivere di me.

Di me come lettrice, ovvero lontana dal ruolo di scrittrice – o dall’identità di autrice, se preferite. Quello che leggo, quello che mi colpisce, quello che mi piace di quanto incontro o vivo. Tra musica, film, personaggi che lasciano una loro impronta in me, fotografia, pittura, architettura.

“Diario di una lettrice” è me, Luana Lamparelli, una fra tante che però ha la pretesa di dire la propria e lo fa tramite questo spazio da tutti fruibile.

Sono tornata in Puglia da diversi mesi, dopo un anno fuori.

Presa dall’impegno lavorativo che mi ha tenuta distante da tutto e più o meno tutti, la mia vita sociale qui, in questo arco di tempo, non è stata certamente intensa. Adesso però è estate, le uscite e la mondanità hanno ripreso a far parte della mia quotidianità, ed è divertente ritrovare quanto lasciato: essere tra la folla ed essere riconosciuta. Qualche anno fa, in un bar, mentre bevevo un cappuccino al bancone, ho sentito alle mie spalle: “Ma quella è la scrittrice”, “Sì, sembra lei, anche se non riesco a guardarla in faccia”. Ho sorriso e sono uscita dal bar, calcando subito gli occhiali da sole sul volto. Solo qualche settimana fa tenevo una nuova presentazione del mio secondo romanzo. Attraversando una piazza gremita di gente per giungere alla sede dell’evento, in un paese non mio, a un tratto mi sono sentita osservata. Un uomo, in piedi nella confusione, seguiva i miei passi fissandomi. Quando i nostri sguardi si sono incrociati, ha timidamente alzato una mano, non certo di avermi individuata o confusa. Ho risposto con un sorriso. Anche ieri sera, nel bel mezzo di un evento culturale, il moderatore mi ha vista seduta tra la folla: senza esitare, padrone della scena, ha alzato la mano, col labiale detto “Ciao”. Anche a lui ho risposto col sorriso, un sorriso più fermo e deciso, accompagnato dal mio Ciao labiale, senza muovere le dita. La gente lì accanto s’è voltata per guardare a chi fosse rivolto il saluto del presentatore, nessuno ha colto il mio rispondergli. Ho imparato a non compiere gesti eclatanti: è l’unico modo per preservare la riservatezza. Pensare che io, fondamentalmente, non sono nessuno, figuriamoci ai divi cosa succede!

Qualche tempo fa ho ricevuto una proposta: scrivere di una storia che sto narrando come una cantastorie a più persone, metterla nero su bianco e pubblicarla in uno spazio particolare. Mi hanno detto che è troppo bella per non essere scritta e condivisa, intrigante ed elegante a dispetto dei tempi che viviamo, e che se avessi voluto avrei potuto anche mantenere l’anonimato. Ho risposto che la scriverò, accettando l’invito, ma firmandola, e firmandola col mio nome. Perché le parole e le storie, per essere credibili e per essere credute dal pubblico, affinché si riconosca in loro, hanno bisogno della responsabilità di chi le scrive, la esigono e la pretendono.

Chi scrive deve assumersi tale dovere. Qualcuno può criticare questa mia affermazione facendo riferimento a quanti scrittori possiedono uno pseudonimo: io rispondo asserendo che esso è comunque una identità. I lettori hanno bisogno di un nome: è vero che un nome vale l’altro, ma scrivere senza nome è come far parlare un impostore. Uno scrittore inventa, racconta, reinterpreta; scrive per altri storie non sue, che appartengono a chi gliele regala perchè possa farle vivere nel mondo; narra i tempi e la sua visione dei tempi. Fondamentalmente è qualcuno che vive la nostra realtà e la restituisce in mille altri modi diversi, ma certamente non è un impostore.

Fatte queste precisazioni, bisogna sottolineare che torno a scrivere un nuovo articolo su questo mio blog dopo diversi mesi. Tre per l’esattezza.

Ricomincio parlando di me, che non è proprio una passeggiata benché sia estroversa, e raccontandovi di una cantautrice.

Non la conoscevo fino a un mese fa: fino a un sabato pomeriggio di fine giugno in cui, dalla lontana Riyadh, mi giunge tramite Whatsapp un link.

Alle volte sono le cose piccolissime ad aprirci nuovi mondi, a metterci in contatto con realtà che molto probabilmente avremmo continuato a ignorare.

Apro il link su Youtube e scopro l’artista LP. Lost on you, live session è stata la canzone che l’uomo dall’altra parte del cellulare – e da un altro continente – ha deciso di inviarmi nel bel mezzo del mio affaccendarmi. Un click sul link (lo stesso che potete fare voi sul titolo sopra riportato e su tutti quelli sottolineati che di seguito troverete) e certe parole hanno assunto un senso più intenso, seppure più evanescente. Il paradosso degli opposti.

Gli opposti. Qualcuno mi fa sorridere quando dubita della mia identità eterosessuale. Gli uomini mi regalano le migliori risate quando, rifiutati sistematicamente negli inviti a cena o per semplici caffè, indispettiti dalla mia volontà contraria alla propria, mi chiedono se abbia mai pensato di avere “una donna”, piuttosto che un uomo, e io gli rispondo che l’unica donna che desidererei è quella delle pulizie.

Ma poi ho incontrato questa donna, LP, al secolo Laura Pergolizzi. Non vi racconterò di lei perchè ci sono molte pagine che già lo fanno e rivelano la sua identità di cantautrice e firma di molti successi di altre star. Vi consiglio vivamente di ascoltarla, di cercare le sue cover di Halo e Creep, di non fermarvi, di smanettare tra Youtube e il web, di ascoltate le sue interviste.

LP disc

Per quanto mi riguarda, vi racconterò solo di come il mio sguardo si posa su di lei e di cosa coglie.

LP, con il suo ultimo singolo Lost on you uscito solo lo scorso 10 giugno, regala un coming out poetico, delicato, sensuale. Gli ultimi fotogrammi del video del singolo sono inaspettati e quasi illogici, sorprendono il pubblico con una conclusione ben diversa da quella che ci si aspettava sin dall’inizio e volutamente fatta maturare con l’alternarsi delle scene.

Incuriosita dal link che un uomo incrociato solo una volta e di cui quasi senza nemmeno sapere come mi son ritrovata il biglietto da visita tra le dita, ho cercato altri brani, mi sono documentata su questa piccoletta giunta da lontano.

LP Night like thisLp Tokyo sunrise

Quello che mi affascina di questa donna esile di statura e corporatura sono la forza, la determinazione, la vivacità mentale. Narra di sentimenti forti con l’intensità che solo le donne sanno coniugare bene con la consapevolezza dell’impossibilità.  Mi chiedo, per esempio, se Lost on you parli di un amore lontano nel tempo e nello spazio e che si ricorda con trasporto sperando che anche l’altro ricordi, o augurandosi che l’altro abbia dimenticato perchè impossibile da vivere o rivivere. O se, per esempio, non sia la classica storia per cui qualcuno pensa a qualcun altro che intanto vive felicemente un’altra storia.

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La nostalgia e il ricordo possono avere tante sfaccettature, anch’essi sono come gli elementi minuscoli e variopinti del caleidoscopio con cui giocavo da bambina. Un gioco di specchi che richiede riflessione e pazienza, attenzione e dedizione, oltre che precisione d’azione: i sentimenti e le emozioni per me sono così. Senza considerare che in qualsiasi momento puoi distogliere l’occhio da quel piccolo cerchio che ti proietta tra le facce specchiate e i colori geometrici di quel cilindro magico, tornare alla vita regolare di sempre.

Questa donna, LP, ha la capacità di raccontare quanto i sentimenti sappiano destabilizzarci, è maestra nel portare sul palco la forza che solo certe donne sanno tirar fuori nel decidere di risolvere dentro di sé la vanità di un amore non corrisposto, lottando contro sé stesse senza piangersi addosso, con azione e grinta. Non è un caso se Fighting with my self sia tra le mie preferite: adrenalina allo stato puro, è la dichiarazione che quest’artista piccoletta sa tener testa a tutti, dominando una scena di musicisti uomini che sfumano alle sue spalle. E’ delicata e forte, femminile e raffinata, ama le donne senza smettere o negare di esserlo a sua volta. Qualcuno potrà dire che in queste mie parole si celi un pregiudizio: la verità è che finora non ho conosciuto una donna omosessuale come lei. Mi affascina, mi incanta con la sua voce, le sue movenze, i suoi brani, la forza che vi traspare, l’essenza che sa incastonarvi. Tokyo sunrise è emblematico di tutto ciò, il suo video non tradisce le mie sensazioni. Il video di Lost on you, invece, ne mostra la capacità di proteggere e accogliere una donna così come un uomo farebbe, con la fermezza che francamente in molti uomini non ritrovo.

LP Kiss 1LP Kiss

Tornando ora alla domanda provocatoria rivoltami da alcuni uomini, al paradosso degli opposti (perchè io sono eterosessuale radicale e Laura Pergolizzi è omosessuale radicalmente affermatasi) una dichiarazione effettivamente devo farla: LP è l’unica donna sulla Terra da cui mi farei baciare e amare, nel senso sentimentale e fisico del verbo.

Con la consapevolezza che nulla è per sempre, che tutto è per ora, o per mai, o per un solo istante eterno e infinito. Cose che capitano nelle menti, e nei cuori. (Forever for now)

 

– Luana, tu rifuggi tutto quello che è banale.

– Sì, bravo, è così. Scappo letteralmente via.

 

 

 

(Foto dal web e fotogrammi ripresi dai video)

Testi: Luana Lamparelli © COPYRIGHT 2016 | TUTTI I DIRITTI RISERVATI | LUANALAMPARELLI.IT

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(Chiamo Houston, devo dirgli di questa giornata. Risponde al mio SOS, iniziamo a parlare, sul mio cellulare arrivano messaggi whatsapp, intanto io ho messo un sottofondo adatto, una canzone che in questi giorni gira tanto tra i miei contatti su Facebook e che mi riporta a quattro anni fa. Anzi cinque. Sentitela anche voi mentre leggete, vi basta cliccare qui OCCHI DA ORIENTALE . Forse non sarà la sola.)

– Cos’è questo chiasso, Luana?

– Occhi da orientale. Live. Non ti piace? Io l’ho scoperta durante un tragitto in auto con il mio collega. Primavera 2011. Alla fine gli ho fregato il cd, live anche quello. Lui lo sa, tranquillo. Ero innamorata folle di un tipo. Gente di mare, non ti fidare: dicono così, e c’hanno ragione! …vabbé, storia vecchia e superata.

– D’amore non si muore.

– Per amore ho imparato a girare in fretta la pagina. Si sa che il racconto diventa sempre più intrigante man mano che si avanza nella lettura.

– Non sempre.

– Non è questo il caso. E poi ci sono così tanti momenti di suspense! (Silenzio) Comunque mi riferivo al racconto della mia vita, non dei miei amori – disamori, meglio.

– E oggi?

– Oggi? ‘na meraviglia!

Inizio a raccontare e ripercorro tutto, fotogrammi precisi tra sorrisi e memoria.

Stamattina. Caffè e biscotti sul tavolo, whatsapp che richiama l’attenzione.

“Meh e la colazione?” – leggo e sorrido.

Quanti chilometri ci separano?, rifletto e realizzo che la distanza non è fatta di numeri, di chilometri, di date, ma soltanto di due avverbi: lontano e vicino.

Il ritrovarsi l’annienta. I sorrisi fatti al di là degli schermi di cellulari che s’illuminano in contemporanea a suonerie di ultima generazione non li vedremo, ma non è difficile immaginarli. E così ce lo diciamo che vorremmo star lì a farla insieme quella colazione, e magari regalarci anche la mezza giornata, o di più, ma non si può. Quante cose abbiamo lasciato in sospeso? Il mare, le domeniche in barca, le mangiate a base di pesce. Forse qualche discorso più sensato del solito, o le vecchie chiacchierate col greco che io ignoro e lui conosce bene. O le diatribe. Le arringhe. E le acciughe.  Forse potrebbe consolarci il fatto che ci pensiamo, ci cerchiamo, ci troviamo nel pensare che sì, sarebbe stato bello, a dispetto di tutti quelli che fanno le stesse azioni insieme, gomito a gomito, ma non con la stessa lunghezza d’onda. Mi torna in mente una frase precisa che spiega benissimo questo concetto: “Noi dormiamo nello stesso letto ma facciamo sogni diversi”, canta nella mia testa Brunori SAS mentre parlo (la canzone che contiene la citazione è COME NEVE)

Pulisco il bagno, lavo i piatti, faccio la doccia, lo shampoo, il vestirsi, il truccarsi, il correr fuori, i mezzi pubblici (quanto mi manca guidare!), un giro tra i social nel tragitto a singhiozzi, ed eccola lì, postata anche oggi, la prima canzone della colonna sonora che ci accompagna.

Poi è di nuovo cielo e luce.

I fiori, i profumi, i colori, la gente a passeggio sotto un sole perfetto, ma quanti siamo?, troppi, allucinante, l’amica trovata all’angolo di Super Gulp, la collega che arriva. Penso che Antonio ieri sera ha tenuto un concerto all’Arci Bellezza, forse è ancora qui, gli mando un messaggio.

“Ciao Lu”, e niente, sta già ripartendo. Sarà per la prossima, ce lo diciamo da Novembre. Quando ci sono io non c’è lui, e viceversa. E’ Primavera, “una rondine un campanile” anche qui, come quando ero bambina e le vedevo stridere nel cielo, cadevano a terra sull’asfalto grigio di civiltà, le vecchie correvano in strada a raccoglierle e le lanciavano in aria sperando che riuscissero a riprendere il volo. E “un bambino che corre, semplicemente arriva qualcosa che prima non c’era, come una guerra torna la Primavera”. Anche qui, il cielo è lo stesso, io sono la stessa. Nonostante i cambiamenti. (Antonio Dimartino, COME UNA GUERRA LA PRIMAVERA)

Poi i tarantini. I miei nuovi amici tarantini.

Una barese adottata dai tarantini sembra più una barzelletta o un profondo gesto di solidarietà? Li adoro.

Le camminate chilometriche, la cellulite sarà di meno a fine giornata? Tanto c’è la cioccolata Venchi a casa. Il parco, l’erba, le risate, le chiacchierate da femmine, roba che abbiamo trent’anni ma sembriamo lettrici accanite del Cioè. Le regressioni sono il miglior stratagemma per ringiovanire!

Però arriva anche una considerazione degna di nota, nel mio parlare rimbambito. “Siete amici ora?” mi chiedono con sorpresa. “Certo. Tu le persone belle non te le tieni, nella vita tua?”, ho risposto senza esitare. E penso a Bollani, a De Crescenzo, al basket, a Trani. Alle risate, ai dialoghi sofisticati e pure a certi pianti. Ma si ride sempre, dopo tutte le tempeste (Bollani è top, qui fa la parodia a Capossela e a Vasco Rossi).

Poi daccapo la strada a piedi. Casa. S’è fatta sera. Vado a fare la spesa, il cielo è blu.

Nel tragitto chiamo i miei cugini più piccoli. Diciassette e quattordici anni. Quanto mi manca la loro mamma. Quanto mancherà a loro senza che ne parlino? Penso a chi si lamenta per le attese e il cuore appeso, sui social e nella vita reale, riempiendo di piagnistei. Andate a farvi fottere, voi e la vostra voglia di esibizionismo, ‘ché il dolore vero non ha parole per mostrarsi, né cerca compiacimento. Banali. Banali e patetici. Chi aspettate che arrivi? Chi non vi ama?

“Soffri per amore? L’amore non fa soffrire. Quello non è amore”, mi diceva un mio collega quando lavoravo in  un’azienda. Si soffre per amore solo quando chi ci ha amati e amiamo non può più tornare. Per quelli o quelle che non vogliono stare con noi si soffre il tempo necessario a prenderne consapevolezza e metabolizzare, poi si gira pagina.

Ho sollevato daccapo lo sguardo, la borsa della spesa ormai piena, camminando sotto il pezzo di cielo estraneo che mi osserva da qualche mese a questa parte. Le stagioni si sono susseguite: l’autunno, l’inverno, la primavera. L’estate è fatta per tornare a casa, il mare è troppo profondo per restare solo in superficie. Parte un’altra citazione nella mia testa: “Tieni stretto il meglio di me, forse non ti sembra moltissimo, stare in superficie è sbagliato, ma a volte lì puoi anche prender fiato”. (Malika Ayane, LENTISSIMO)

E nel cielo brillano delle luci, seguono una traiettoria precisa: un aereo. Torno ai miei ventiquattro anni. Io e il mio migliore amico andavamo in auto fino a Palese, alla sera, in alcune giornate che sapevano di finestre spalancate fino a tardi e televisori che trasmettevano partite strane di coppie in rotta di collisione. Parcheggiavamo lì, dove meglio si vedeva il decollo. Forse volevamo guardare il decollo delle nostre vite, non avendo ancora il coraggio giusto per agirlo. Passavano le ore, forse due, forse tre, facevamo marcia indietro. Andavamo allora nel “campo di fragole”, che era un campo da tennis nella zona alta del nostro paese, quella dove ho sempre abitato. Stavamo anche lì parecchio tempo. Avevamo un sacco da dirci. Ora un po’ meno. Siamo cresciuti troppo. Probabilmente perché ora, al posto di quel campo da tennis, c’è un parcheggio. Inutilizzato.

Casa, cucinare, mangiare. Parlare. Con un’amica toscana tutta nuova che non vuole io vada via, e allora mi chiede di lasciare una valigia a casa sua. “Le case sono fatte delle persone che ci abitano”, le ho detto per sottolineare che le case sono belle se lo sono le persone che le vivono. Belle come lei. Lascerò un po’ della mia roba in questa città che non pensavo mi sarebbe piaciuta così tanto, benché l’abbia cercata io stessa. La lascerò a lei perché le persone autentiche meritano sempre il nostro tempo e noi una possibilità per rivederle. Non una scusa, ma una possibilità a dispetto dei contrattempi, degli imprevisti, del rimandare a oltranza, della frenesia. (Parlare) Con un amico leccese che è grande confidente e complice, basta poco perché chi è genuino si ritrovi nello sguardo dell’altro, non è questione di tempo: è questione di carattere e personalità.

– Allora, Lulù, niente problemi oggi? Mi sembra tutto sotto controllo – mi chiede Houston con fare soddisfatto.

– Solo perchè non ti ho detto dei miei risvegli con l’ansia sdraiata affianco. Ma sai cosa? Ci sono così tante cose belle nella mia vita, che è un peccato dare a quell’ansia il lusso di riempire questo nostro spazio. Quando ci rivediamo, ora?

– Quando vuoi, mia cara. Solo una domanda prima dell’arrivederci. Hai un sogno che conservi ancora oggi dopo tanto tempo e che non hai nemmeno provato a realizzare?

– Certo.

– Qual è?

– Far volare un aquilone su una spiaggia deserta, in principio d’autunno, con i piedi scalzi nella sabbia ruvida e le sciarpe leggere attorno al collo.

– E cosa aspetti?

– La persona giusta.

– Non si sta facendo tardi?

– Per tornare bambini non è mai troppo tardi, mio caro. Decolliamo?

 

palloncini su un cielo sereno di primavera

 

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GLI UOMINI CI CAMBIANO

 

Una cena, ieri sera.

Un avvocato, Parigi nell’aria.

Una frase, un’affermazione sicura.

E sorrido, rido, me ne scuso.

La frase è la stessa che ho sentito dire in un’altra giornata, su una panchina, in piena Primavera, anni or sono. Sempre da un uomo. La stessa che leggo questa mattina, scritta da Gramellini su un Vanity Fair che ha aspettato troppo prima di essere sfogliato.

“La monogamia a oltranza non è una condizione naturale dell’essere umano”, scrive Massimo.

Sorrido, rido, rifletto. Ma senza appesantirmi. Con la stessa leggerezza incoraggiata da Calvino.

 

Non so se questa storia dell’impossibile monogamia sia vera o no.

Procedo a random, in fondo è da un po’ di giorni che mi interrogo sul tema “Gli uomini ci cambiano”, dopo aver letto un’intervista di Jane Fonda per Vanity Fair, dove diceva che sono terribilmente crudeli, e ora gli elementi sono aumentati.

gli uomini ci cambiano

So che ho molti amici uomini, da sempre.

Il miglior amico delle elementari? Maschio. Alle medie? Pure. Alle superiori… va da sé. E poi amici maschi che lo sono da una vita, isole meravigliose a cui raccontarmi, con cui ridere e sorridere, scherzare e magari andare fuori a cena, o a pranzo, o in discoteca. Alcuni li conosco da sempre, altri da poco.

Perché è vero che in giro c’è tanta “roba-che-non-è-proprio-Chanel-numero-5”, ma è anche vero che ci sono tanti uomini che sono invece manifesti della fiducia che noi donne possiamo riporre nella loro specie. Anche se può sembrare difficile.

 

La monogamia a oltranza: Gramellini ha inserito quelle due parole lì, “a oltranza”, a differenza dei miei amici a cui l’argomento pare tanto caro. Due parole che fanno la rivoluzione, diciamocelo pure.

 

Partiamo da un presupposto semplice ma che spesso si dimentica: l’essere umano è in continua crescita. Le esperienze che viviamo ci plasmano, i rischi che decidiamo di affrontare ci mostrano aspetti del nostro carattere che magari ignoravamo del tutto. Basta cambiare il lato della strada che percorriamo per tornare a casa per accorgerci di scenari diversi e scoprire che quella nuova prospettiva ci entusiasma e ci piace più della precedente. Cambiano i nostri gusti e cambiamo noi. Sempre, inevitabilmente, fortunatamente. Inevitabile dunque che possiamo incontrare anche qualcuno che ci piaccia e ci faccia sentire nuovamente le farfalle nello stomaco, benchè il lato del matrimoniale su cui dormiamo non sia proprio libero.

A cambiare letto matrimoniale, però, e quindi a portare dimostrazioni alla tesi ben esplicitata da Gramellini, sono perlopiù gli uomini.

Una volta,  per esempio, una mia amica mi ha detto:

“Ogni tanto mi metto alla prova: questo cuore è ancora capace di battere o sono diventata incapace di innamorarmi? Però ******* non lo tradirei mai. Abbiamo due vite fantastiche che diventano un noi denso di significato”

Ecco: forse le donne hanno approcci diversi alla questione, ma resta il fatto che anche solo sentimentalmente pure noi ogni tanto siamo poligame. E diciamocela tutta: molti uomini potrebbero pure avviare la stesura di enciclopedie sui casi di tradimento vero e proprio che hanno subito, vedendosi schiantare quel piccolo IO dopo cadute vertiginose.

Io per prima, alla fantastica età che ho (“Nel mezzo del cammin di nostra vita” potrebbe darvi un’idea numerica), di una cosa sono certa: si possono amare contemporaneamente molte persone. Amare, nel senso ampio e profondo del termine. Perché inevitabilmente siamo e restiamo legati a chi c’è stato nella nostra vita con relazioni autentiche.

Io, per esempio, sono legata a quegli uomini che mi hanno cambiata.

Sì, perché hanno ragione le donne che dicono che gli uomini ci cambiano. Io però voglio fare una precisazione: gli uomini che mi hanno cambiata sono riusciti a tirare fuori il meglio di me. Perché loro sono stati uomini migliori.

Gli uomini che mi hanno cambiata sono quelli che hanno saputo aiutarmi a conoscere l’altra faccia della medaglia. Perché la verità è che molto spesso noi donne siamo così determinate nel voler essere amate da quelli sbagliati, che ci perdiamo il bello di questi esseri così diversi da noi. Sono quelli capaci di far ridere e sorridere nonostante tutto intorno sia sbagliato. Sono uomini sinceri e onesti, che mi raccontano delle loro storie e io scopro nuove prospettive – le loro – che spesso noi donne nemmeno prendiamo in considerazione, legate come siamo ai ruoli quasi istituzionali che la nostra società ha affibbiato loro.  Anche se pure loro in amore non sono stinchi di santi, come gli altri. Ma forse la perfezione è dell’umanità terrena? Dagli uomini noi donne abbiamo tanto da imparare; come apprezzarli per quello che sono, per esempio. E darci il tempo di conoscerli davvero, visto che corriamo sempre troppo, in certi casi.

Gli uomini che stimo e che sempre faranno parte della mia vita non sono in lotta con le donne. Perché così dovrebbe essere: nessuna lotta, tra nessuno. Non potrei mai essere femminista perché esserlo per me significherebbe ammettere che la nostra società è ancora fortemente maschilista, e questo non lo riconoscerò mai. Ci sono gli stronzi – è vero. Esattamente così come ci sono le stronze – siamo leali. Ci sono tanti uomini che sostengono le donne, loro compagne o semplicemente amiche o persino sconosciute. Perché siamo persone, a prescindere dal sesso. Adoro gli uomini che hanno ben presente questo concetto.

Sì, ci sono tanti uomini nella mia vita che mi hanno cambiata, o che semplicemente mi hanno accompagnata nei cambiamenti e nei cambi di direzione. Alla faccia di chi non crede nella sincerità dell’amicizia tra uomini e donne!

Inevitabilmente ce ne sono stati altri (pochi, perché è sempre bene avere poche storie d’amore) per cui ho sofferto molto, troppo. Come tutte noi. (E così come molti uomini che hanno sofferto per le donne.)

La sofferenza? Uno stato (disgraziato) di grazia che permette di scoprire meglio il diamante grezzo che abbiamo dentro. Ma solo se ci sta davvero dentro di noi, quel diamante.

shine!

Sono cambiata e in parte è stato merito loro, in gran parte però merito mio, perché ognuno di noi reagisce all’esterno in modo strettamente personale e soggettivo.

Viva dunque gli uomini capaci di cambiare le donne. E viva le donne in pace con tutti. A prescindere dai diamanti e dal catrame.

(Tutti gli uomini e le donne che fanno soffrire il prossimo non cambiano nessuno: semplicemente danno prova della loro bruttezza.)

 

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The Acoustic Guitar Project. In Italia grazie al liutaio Paolo Sussone

Per un attimo provate a pensare a un giro di note pizzicato sulle corde di una chitarra sconosciuta. Ora pensate che questa chitarra passi tra altre mani, anch’esse sconosciute, perché ognuno faccia la sua parte. Immaginate che insieme alla chitarra, su cui i nomi di chi la suona si fanno sempre più numerosi, viaggi anche un registratore, dove resterà traccia di tutte le diverse melodie.

Immaginate per un attimo che non c’è nessuna competizione, nessuno show legato al business, ma solo lo spettacolo della passione per la musica che unisce. Impossibile – vero? – vista l’epoca in cui ci troviamo. Sorridete disincanti davanti a un’idea del genere.

 

E invece vi sbagliate.

Perché quello che vi ho appena descritto è realtà.

 tagp

Tutto è nato a New York: David Adams ha messo davvero la chitarra tra le mani della gente e fatto camminare l’idea, che ha viaggiato per il mondo: Nuova Delhi, Tel Aviv, Los Angeles, Bogotà, Sidney… Sono più di trenta le città. Poi è giunta anche in Italia.

Genova, 8 Novembre e 6 Dicembre 2014.

Adesso la chitarra torna a suonare i sogni di cinque nuovi cantautori. Questa volta il palcoscenico è a Milano.

Tutto merito di un liutaio genovese che nessun ostacolo può fermare, quando decide che qualcosa di bello davvero deve essere realizzato.

Si chiama Paolo Sussone, classe 1979, ed è il nuovo ospite di Ars Artis.

 

Paolo sussone Foto
Paolo Sussone nel suo laboratorio di liuteria

 

 

L.L. Come sei riuscito a scoprire il progetto di David Adams, “The acoustic guitar project”?

P.S. Tutto è partito dalla mia attività di liutaio e dalla mia passione per la musica: cercavo qualcosa che mettesse luce contemporaneamente su entrambe, ma non in modo autoreferenziale. Volevo realizzare qualcosa che creasse una rete, che “sintonizzasse” tra loro persone estranee ma con un sentire comune. Desideravo realizzare non un progetto, ma un valore. Avevo un’idea, ho cercato su Internet, finchè non ho trovato la mail di Adams all’interno di un gruppo: cercava liutai che ospitassero il suo progetto in tutto il mondo. Era il 2013. Ci siamo sentiti, ho proposto Genova come fulcro italiano del format. È andata così, tutto è partito così.

 

L.L. La chitarra protagonista di questo progetto: è una delle tue opere?

P.S. In realtà è una chitarra con una storia tutta sua. Nel 2014 (anno della prima edizione italiana di “The acoustic guitar project”, ndr) non c’era tempo per realizzarne una ex-novo. Così ho subito pensato alla vecchia chitarra malmessa che tutti usavamo su, in un vecchio forte adibito a sala prove.  Dopo tutti quegli anni, però, era davvero malconcia, anche perché nessuno la curava o se ne serviva da parecchio. L’ho restaurata ed è stato bello regalarle una nuova vita. Anche quest’anno è lei la chitarra protagonista del progetto.

 

L.L. Dietro ogni sogno, mille sfide, di sicuro degli ostacoli. Quali difficoltà pensavi inizialmente che avresti incontrato, e quali invece hai realmente incontrato in itinere?

P.S. Inizialmente, dopo aver concordato il tutto, ho temuto che fosse una cosa più grande di me. Volevo che fosse un progetto di qualità, altrimenti non ne avrei fatto più niente. Non avevo contatti, soprattutto mi mancavano riferimenti per l’organizzazione dell’evento. Ho riflettuto sul fatto che richiedesse una competenza, un’esperienza, che non possedevo.

Una sola cosa però era chiara: volevo creare valore per ogni singolo aspetto,  per il progetto in sé, per la musica, per la città di Genova.  Poiché la buona  qualità non esiste senza valore,  ho coinvolto tutti i soggetti e le realtà del mio territorio, tutti professionisti competenti ma attenti. Ho contattato le realtà giovani che possedevano, oltre alla professionalità, un alto valore umano.

Il concetto americano prevedeva che ogni musicista si esibisse solo per il singolo brano scritto nella settimana a disposizione. Io ho voluto dar valore anche ai musicisti, così ho pensato di “personalizzare” il format: ogni musicista, già dalla prima edizione del 2014, si presenta al pubblico, nella serata del concerto, con tre pezzi anziché uno, e in più porta con sé un ospite che lo accompagni con un altro strumento nell’esecuzione di un brano.

Insomma, è stato tutto molto impegnativo, molti sono stati gli ostacoli anche nella messa in opera, ma affrontati con le persone giuste son diventati sfide, e le abbiamo vinte tutte.

È stato meraviglioso averne il riscontro nell’energia che si è creata a Genova, tra le persone che hanno collaborato, il pubblico che ha partecipato attivamente, il concerto che pulsava di una forza tutta sua, capace di imprimere gioia.

 

L.L. Una di quelle gioie che di sicuro resta ben impressa e te la porti a casa, la sistemi tra i ricordi migliori, ogni tanto la condividi con gli altri “compagni di viaggio”. Anche quest’anno c’è la collaborazione dell’associazione culturale genovese “The musical box”?

P.S. Sì. Si tratta di un’associazione fondata da amici, eravamo quelli che da ragazzini nutrivano il sogno della musica. Poi siam  diventati grandi e ci siam detti “Va bene i sogni, ma adesso diamoci da fare”. È nata così la nostra sala prove in un edificio industriale. È stata la prima occasione per testarci nel lavoro, per metterci davvero alla prova.

 

L.L. Cosa ti piace di più di questo progetto che viaggia per il mondo?

P.S. Hai provato a curiosare sul sito ufficiale? C’è da restare meravigliati davvero per come la musica sia interpretata nelle diverse parti del mondo! Unisce le diversità pur mantenendole, ecco cosa fa per me questo progetto, questo passarsi la chitarra l’un l’altro.

 

Per conoscere i cantautori, le città che hanno ospitato il progetto, guardare le foto, ascoltare i brani, potete curiosare sul sito www.theacousticguitarproject.com.

Se siete a Milano, non vi resta che conoscere David Adams, giunto direttamente da New York per questa seconda edizione italiana del suo progetto, e i cinque cantautori che si esibiranno questa sera alle 21.30 sul palco della “Salumeria della musica”, questa sera.

Ovviamente non mancherà Paolo Sussone, l’artefice di questa bellissima “importazione” artistica, la mente brillante che non solo ha permesso all’Italia di diventare parte attiva in un così bel progetto, ma ha creato plus-valore per tutti.

 

“One guitar, one week, one song”, dice il motto di “The acoustic guitar project”.

Una chitarra, una settimana, una canzone. E un sogno fatto realtà, aggiungo io.

Le storie belle sono fatte di persone straordinarie.

 

DimmiCosaCiVuole

#DimmiCosaCiVuole: apro Twitter, leggo tra gli hashtag di oggi.

Dimmi cosa ci vuole, mi ripeto, e subito penso che non è una domanda facile così come vuole apparire.

Sono un’ottimizzatrice: via il superfluo, si tiene solo quello che davvero serve. Vorrei riuscire a vivere con pochi oggetti (fatta eccezione per libri e dischi), per questo compro solo quello che serve davvero ed evito soprammobili od oggetti che il mercato vuol imporci spacciandoceli come “essenziali”.

Essenziale, poi, cos’è? Cosa è davvero essenziale?

Ecco che pian piano il senso più profondo della domanda, Dimmi cosa ci vuole, prende forma, poco alla volta.

Escluso il mondo materiale, ho iniziato a cercare tra i valori, ma i valori sono tanti. Come restringere il campo? Ci vuole una parola, una sola -mi son detta-, che sia bussola d’orientamento, parola cardine di tutti i discorsi possibili; una parola, una sola, che ben custodisca il senso del cercare e dell’operare dell’uomo, nei diversi contesti; una sola parola capace d’essere principio e fine insieme della ricerca dell’uomo. Una parola nemmeno troppo complessa, perchè se è quello che davvero ci vuole, deve essere anche qualcosa a portata di tutti, minimo comune denominatore e massimo esponente in un solo istante. E deve essere una parola intensa al tempo stesso per il bambino e per l’anziano, traducibile in tutte le lingue e appartenente allo stesso modo a tutti i codici linguistici. Una parola motore e catalizzatore, per l’uomo comune e per il super-uomo, per la donna semplice e per quella emancipata, per la femminista e per l’antifemminista, per il manager e per chiunque faccia qualsiasi lavoro, per la donna in carriera e per quella che se ne sta in pantofole sul divano. Per chi sta bene, e per chi sta male. Per chi soffre e per chi s’impegna davvero per chi soffre. Quindi una parola che contenga anche la chiarezza dell’agire e del parlare, la semplicità e la cordialità, il senso di umanità e di reciprocità, di rispetto e di impegno per sè e gli altri.

Ecco allora che capisco. E sorrido.

Questa parola ce l’avevo in tasca, è stata la parola che ho dedicato a tutti per  questo nuovo anno.

Dimmi cosa ci vuole: ci vuole una parola sola, bellezza. Che è insieme la più difficile da comprendere, vivere e declinare nei nostri giorni. Che è la parola che possiede in sè l’etica, la responsabilità e l’estetica dei valori.

Nel mondo ci vuole bellezza, e nella vita di ognuno di noi pure.

Che ve ne sia tanta, dunque, e che sappiate riconoscerla sempre. Non solo per quel che riuscite a cogliere, ma anche per quel che -vostro malgrado- perderete.

E credo anche che questa parola meravigliosa, per poter essere ammirata e realizzata davvero, richieda anche il sacrificio di mettere un po’ in ombra – se non da parte – il proprio io.  Per scriverla meglio.

Luana

 

bellezza

 

 

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#LezioniDAmore

Tu non sei una goccia nell’oceano. Tu sei l’intero oceano in una goccia.

(Jalāl al-Dīn Rūmī, [1207-1273] anche conosciuto come Jalāl ad-Dīn Muḥammad Rūmī ed è più conosciuto come Mevlānā in Turchia e come Mawlānā nell’Iran ed Afghanistan, poeta e mistico persiano.)

#LezioniDAmore

Direttamente dai miei post su Twitter per il primo esperimento di filosofia sul social indetto da “ilSole24ore-il Domenicale”. Tema: l’amore. Per questo viaggio tra citazioni, poesie, pensieri, un solo hashtag di rito: #LezioniDAmore.

È bello vedere come un solo hashtag diventi il portavoce di mille pensieri, mille menti diverse che puntano a un unico cosmo: l’amore, appunto. Anzi, scusate: l’Amore, con la A maiuscola, adesso va bene, sì. Il sentimento che si fa orizzonte, stella polare; che apre su infiniti pensieri, che si fa balsamo, arcobaleno, e che, come un’altalena di emozioni, ora lascia il vuoto nella pancia, ora regala l’ebbrezza del vento che carezza il volto. Consapevoli siamo sempre di quel vortice che ci risucchia le viscere quando la direzione dell’oscillazione cambia, e ce lo ricordiamo davvero quando siamo su, nel punto più alto, coraggiosi e gioiosi?

 

Twitteracea21d

 

 

Foto, disegni e testi: ©Luana Lamparelli

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